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La mia Istanbul

Viaggio di una donna occidentale attraverso la Porta d'Oriente

 

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Ho sempre amato i porti. Uno dei miei viaggi ideali sarebbe un percorso itinerante che sfiora i porti del mondo. Tutti i porti del mondo.

Sarà perché a Senigallia, dove sono nata, il porto è sempre stato il mio posto preferito. D’inverno e d’estate, ho sempre passeggiato sul molo fino a fermarmi sulla punta, là dove lo sguardo annega nel mare, sospeso sul bilico sottile disegnato all’orizzonte dal cielo e dal mare. 

Nei mesi invernali, la nebbia sfumava i contorni delle cose, lasciando che la sirena lanciasse il suo richiamo, con quel suono ingoiato dal buio. Quel suono che sembrava appoggiarsi solo sui flutti delle onde la cui corsa moriva sull’estremità del molo. Chissà, forse è così che si spezzano anche i sogni, senza fare rumore, con un moto liquido appena percettibile, che avanza fra le nebbie della speranza.

Com’era affascinante, quel suono notturno, invernale. E poi la luce del faro (lo stesso faro al quale non si può pensare senza ricordare Virginia Woolf), intermittente come le gioie del cuore.

Ricordi che si rincorrono, giocano a rimpiattino, scovano memorie sepolte.

Il molo ha radunato i pensieri arruffati della mia adolescenza. Lo ha fatto d’estate, con quell’acqua lucente che al tramonto rivela un chiarore azzurro che sembra scendere direttamente dal cielo, con i marinari e i loro pensieri appesi alla lenza (pescare al molo è attività frequente, ma più che la pesca importa la sosta, l’attesa), le biciclette che attraversano quel corridoio di cemento che come Mosè divide le acque.

Lo ha fatto d’inverno, ospitandomi nelle casette dei pescatori affacciate sul mare, in mezzo ai gatti e agli scogli (la colonia felina prospera felicemente da anni, e i suoi abitanti hanno gli occhi allegri e sornioni di chi ha trovato un bel posto per vivere).

Da sempre, quel porto per me è diventato metafora di tutti i porti del mondo. Quelli che non ho mai visitato ma che vorrei sempre esplorare.

Il porto sa di brezza, profuma di mare. E’ un luogo misterioso, che mescola la quiete al caos. Una punta estrema, che come tutte le cose che hanno a che fare con il confine fra due mondi (quello terrestre e marino, in questo caso) vivono di essenze strane che corrompono ogni certezza.

Là dove la terra finisce e comincia il mare, il porto veglia. Come un guardiano davanti a una soglia.

Le navi partono e arrivano, come la gente su questa mondo, ogni giorno. Trasportano fiumi di persone che prendono la via del mare. Turisti spensierati o pescatori in cerca della loro anima, dispersa nelle moderne barcone che hanno scordato il fascino di quei piccoli fari che come fuochi brillavano nel mare notturno, segnalando quelle barchette di legno dove gli uomini sfidavano il vento e il freddo e attendevano, pazienti, che la rete si riempisse di pesce.

Ci vorrebbero tanti Moby Dick, oggi.

Ma l’uomo moderno ha scordato di temere e rispettare il mare.

Qui da noi si dice sempre che del mare bisogna avere paura, solo allora si può avere a che fare con lui.

Di notte le navi dormono cullate dall’acqua, fra le luci delle città e quelle del cielo. Ma preferiscono comunque quelle del cielo, fedeli aLla Via Lattea che ha sempre orientato e custodito ogni navigazione.

A volte penso che vorrei essere una di loro.

 

 

Non capisco, e continuerò a non capire, la maleducazione in rete.

Ultimamente, in questo blog, compare puntualmente un Anonimo che usa toni raffinati, di gran classe (come "non hai capito, coglione") per attaccare i commenti di altri utenti.

Ora, succede anche negli altri blog. A un certo punto, come un funghetto velenoso, spunta qualcuno che comincia a usare modi bellicosi che sfociano volentieri nell’aggressione gratuita.

Non so, ma ho sempre pensato che la stizza estrema nasconda gravi problemi.

Specie se non si ha il coraggio di firmare (va bene usare l’anonimato qualche volta, nessun problema, capita anche a me, ma quando si aggredisce ripetutamente qualcuno è anche il caso di mostrare almeno un nome, una sigla). Mi spiego: è facile attaccare. Ancora più facile, farlo sputando veleno.

La domanda è: perché?

Perché i blog devono per forza diventare un’arena? Non ne abbiamo già abbastanza, tutti i giorni, tutto il santo giorno?

Ci vuole più forza, e più intelligenza, nell’argomentare in modo pacato, stimolando riflessioni. I modi splatter sono…adolescenziali. E, non so, hanno un retrogusto politico, che ha il sapore di quelle politiche barricadere che vietano ogni forma di dialogo.

Purtroppo la rete è anche questo. Un luogo di aggressioni gratuite.

Pazienza. Speriamo che, dopo l’ondata di caldo che stuzzica le adrenaline, si torni a modi più pacati.

Perché è così bello discutere, insieme, di tutto. Non c’è nessun bisogno di scatenarsi addosso l’un l’altro in modo epilettico e soprattutto volgare.

Sa tanto di…ideologia.

Peccato, tu ci tieni alla tua piccola casa in rete, e poi arriva qualcuno e comincia a sporcare il pavimento di fango. Pazienza, è la libertà del web.

Ma a noi, a noi tutti, la libertà di intristirci per queste manifestazioni mediocri.

E di pulire i nostri pavimenti…

 

 

Niente come fare un film costringe a guardare le cose. Lo sguardo di un letterato su un paesaggio, caompestre o urbano, può escludere un’infinità di cose, ritagliando dal loro insieme solo quelle che emozionano o servono. Lo sguardo di un regista – su quello stesso paesaggio – non può invece non prendere coscienza – quasi elencandole – di tutte le cose che vi si trovano. Infatti mentre in un letterato le cose sono destinate a divenire parole, cioè simboli, nell’espressione di un regista le cose restano cose: i "segni" del sistema verbale sono dunque simbolici e convenzionali, mentre i "segni" del linguaggio cinematografico sono appunto le cose stesse (…). Dunque se fossi andato nello Yemen in quanto letterato, sarei tornato con un’idea dello Yemen completamente diversa da quella che ho essendoci andato in quanto regista. Non so quale delle due sia la più vera. In quanto letterato sarei tornato con l’idea – esaltante e statica – di un paese cristallizzato in una situazione storica medievale: con alte e strette case rosse, lavorate di fregi bianchi come in una rozza oreficeria, ammassate in mezzo a un deserto fumigante e così limpido da scalfire la cornea: e qua e là vallette con villaggi, che ripetono esattamente la forma architettonica della città, tra sparuti orti a terrazza, di grano, di orzo, di piccole viti.

In quanto regista ho visto invece, in mezzo a tutto questo, la presenza "espressiva", orribile, della modernità: una lebbra di pali della luce piantati caoticamente – casupole di cemento e bandone costruite senza senso là dove un tempo c’erano le mura della città – edifici pubblici in uno stile Novecento arabo spaventoso, eccetera. Ho visto insomma la coesistenza di due mondi semanticamente diversi, uniti in un solo e babelico sistema espressivo.

(Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane)

 

Rileggendo le Lettere Luterane, non posso non stupirmi in continuazione della lucidità di Pasolini. Sul mondo delle cose, poi, i  nostri sguardi hanno deposto di tutto. Dalle icone scintillanti d’oro alle corna del diavolo, dai bisogni che diventano sogni alla magnifica proiezione terrena del mondo delle nostre "cose interiori".  Non si tratta delle idee platoniche, ahimé.  Si tratta della nostra visione del mondo sul quale il velo di Maya accumula, come in un gigantesco parcheggio, la nostra verità sulle cose. Raccontarsi la parzialità del nostro sguardo è già un passo avanti verso la demolizione dello sguardo "assoluto", con la sua pretesa di granitiche verità sul mondo. Il mondo è e sarà sempre limitato, parziale, corrotto dalla nostra percezione. E allo stesso tempo sarà bello proprio per questo, se solo ne manteniamo coscienza.

Gli sguardi sono tanti, come scrive Pasolini. Quando il suo è venuto a mancare, pochi mesi dopo la scrittura di queste e altre lettere, certamente al mondo è stato sottratto uno sguardo importante.

 

 

La storia di Eros e Psiche si ripete, da sempre, ogni giorno. Fa parte di quegli archetipi che ci incontrano nell’aurora dei nostri giorni, e ci accompagnano, instancabili, fino al nostro tramonto, fino al giorno in cui il destino spegnerà l’ultima stella.

E spesso noi, come Psiche, avventati ci gettiamo sull’amore prima ancora di poterne scrutare il volto segreto. La paura che ciò che afferriamo ci sfugga rende il nostro sguardo ardito, insistente e goffo, come mani di adolescenti impegnate nella prima carezza.

L’amore è il più bello dei mari da navigare, in questo nostro viaggio terreno. Eros ne sostiene le ali che, come vela gonfiata dal vento, scivolano via silenziose. Eppure quante cadute. E quanti rimorsi. E rimpianti. E nostalgie.

Potremmo essere più saggi. Ma come Psiche avanziamo in fretta, troppo in fretta, bruciando con l’olio dell’imprudenza il volto amato che si ritira, e sfugge per essere conosciuto in silenzio.

Tenere senza trattenere è difficile. Ecco perché i corpi degli amanti finiscono per fare la guerra, gemendo, rantolando, inseguendo il flusso rapace della carne e del sangue. Eppure Eros è anche delicatezza, carezza soave che si fa trasparenza, immobile pietra di volta nell’arco che ci sostiene.

La storia di Eros e Psiche racconta agli amanti della difficoltà di conoscere davvero l’Amore.

E poi che amiamo dell’altro? Cosa rende fragili i nostri confini trascinandoci nel lago in cui annegheremo?

Perché non c’è amore senza tempesta. Senza un postumo dolore randagio a mietere sofferenza là dove c’erano gioia e calore.

E le ossa di squassano, e il vento del dolore sbatte via i remi alla barca che si inabissa in mezzo ai flutti.

Ma ognuno di noi, guardando indietro, sa che ne è valsa la pena.

Anche se è stato stupido e ingenuo come Psiche, e se a differenza di lei non ha avuto la forza per iniziare il suo viaggio verso la conoscenza di quell’amore.

Forse non siamo mai pronti davvero, per amare. Forse siamo sempre in ritardo di quell’attimo che sospende lo scorrere del tempo aprendo lo squarcio al mistero dell’altro che è noi. Approdiamo invece alle bellezze e alle meraviglie, questo sì, spasimando subito perché siano eterne. E finiamo per credere all’immobilità della memoria che lesta lavora per imbalsamare ogni cosa in un’ illusione d’ amore che non coincide mai, in realtà, con la sua vera essenza.

Se volessimo conoscere davvero, come Psiche dovremmo fare un viaggio ignoto, lungo e tortuoso. Da non confondere mai con le pene amorose che interrompono i lieti giorni.

Si tratta di un altro viaggio. Ma a noi basta già la sofferenza che patiamo quando naufraga un amore. E anche questo è comunque un viaggio difficile da affrontare.

Vorremmo non partire mai. Ma sempre, invece, dobbiamo andare…

 

 

La parte più gravosa della nostra identità coincide con ciò che gli altri pensano o sanno di noi. Ci guardano e sappiamo che sanno, e con il loro silenzio ci costringono a essere ciò che si aspettano da noi, a comportarci in accordo con le nostre azioni precedenti o con sospetti che abbiamo destato senza esserne consapevoli. Ci guardano e non sappiamo chi vedano, cosa inventino o cosa decidano per noi. Per chi ti incontra sul treno di un paese straniero sei uno sconosciuto che non esiste al di fuori del presente.

(Antonio Munoz Molina, Sefarad)

 

Sono cresciuta in una cittadina di mare che contava poco più di cinquantamila anime. Ricordo i pomeriggi tersi della mia adolescenza, quando le nuovole dell’età adulta non ombravano ancora gli alberi del destino. Però ci conoscevamo tutti, e a ogni saluto corrispondeva un "ciao", come in un passo doppio di danza.

Tutti conoscevano tutti, ognuno avvistava l’altro nell’intercettazione continua che avveniva ogni giorno nelle strade del centro. Così, il "peso del nome" mi sottraeva aria e leggerezza. Invece all’estero, nei miei viaggi continui, scoprivo la meraviglia dell’anonimato, quella sensazione di fresca trasparenza che ti fa galleggiare sopra e oltre la folla. Ecco perché il viaggio è per molti liberatorio. Ci libera "dal male" del nome nostro.

Non essere più nessuno. Accade nelle grandi città, e tuttavia ogni quartiere ripropone la confidenziale convivenza del paese, dove ci si scambia saluti e ognuno sa chi sei, dove vai, cosa fai. Anzi, più che sapere, sospetta. E proietta. E giudica. E mormora.

Senza quasi saperlo, accendiamo dinamiche continue nelle nostre interazioni con chi ci conosce. La moltitudine delle nostre immagini chiede udienza, e la chiede a seconda dell’interlocutore di turno. In questo condominio affollato, noi dove siamo?

In realtà siamo oltre quel nome. Siamo là dove chi ci "ci conosce" non arriva più. Lì si estende la verità dell’anima nostra, il fiore del nostro giardino, in cui vivono le piante più belle. Quelle che nessuno ha mai nominato. Quelle il cui nome è rimasto segreto.