Si sta come d’autunno

sugli alberi

le foglie

 

 

 

 

 

 

 

Mi è capitato di commuovermi come una scema guardando una fiction.

Anche se questa fiction ha i difetti di tutte le fiction, in cui i buoni sono buonissimi e i cattivi cattivissimi. Non funziona così il mondo, va bene, lo so, lo so, per carità. Mancano le sfaccettature, nella fiction, che non ti permettono mai, se scavi davvero a fondo nell’esistenza, di vedere il nero da una parte e il bianco dall’altra, senza quei grigi e quei miscugli cromatici che fanno la vita "reale" e non immaginata.

Sì, lo so. Nassirya – per non dimenticare è un film per la tv che però, a differenza di Beautiful e dei nostri medici in famiglia e negli ospedali (sembriamo un paese di soli malati, a giudicare dai camici bianchi che razzolano nei nostri schermi), racconta una storia vera. E se poi, che diamine, ci inserisce i trucchi televisivi, fa niente. Davvero.

Un po’ di etica, di enfasi, di retorica si perdona facilmente. Come la marachella di un bimbo.

Certo, quegli italiani guidati da Raoul Bova (lui sì, con una faccia da bello che rende ancora più drammatica la sua morte, che ne siamo coscienti o meno) sono solo buoni, solo eroi, solo convinti di aiutare il popolo nella sua traversata in direzione della democrazia. E invece sai, e lo sai, che nella realtà, proprio perché erano uomini, anche i caduti di Nassirya avevano i loro difetti.

 Lo sai che erano anche stronzi. Lo sai  che non forse sempre avevano aiutato gli iracheni ma erano stati a volte anche bruschi (perché il caldo, la guerra, l’allarme continuo tende l’anima, la secca al sole, anche se solo per qualche istante). Lo sai che potevano avere i loro momenti grossolani, le loro vigliaccherie, le loro paure. E magari perfino i loro razzismi, perché no. Lo sai. Erano uomini.

Ma se la fiction ingentilisce le figure, se la morte trasfigura i difetti avvicinandoci al volto di Dio, è anche vero che quegli uomini, sì quegli uomini, erano innanzitutto tante storie, tanti racconti.

Racconti interrotti quel 12 novembre 2003.

E ti viene da pensare a quei coglioni che urlano "Dieci, cento, mille Nassirya" in un arcobaleno di idiozia al quale non manca davvero nessun colore.

Ecco, il film mostra innanzitutto le storie. Le mostra con le iperboli della finzione, lo ripeto, ma parte dalla realtà. E chissenefrega se le esigenze di copione chiedono qualche eroismo in più, e qualche ombra in meno.

Fatto sta che ogni soldato morto è un uomo. Un uomo che a casa ha una moglie che ha paura di una telefonata notturna, un figlio che agli amichetti dice "papà lontano, papà partito". Un uomo che ha un  padre, una madre. E cugini. E amici.

Ogni foglia caduta in primavera (perché quando muori senza invecchiare non sei una foglia che cade in autunno, così come dovrebbe essere) rende il bosco della vita meno verde. Gli ruba il colore della speranza. Violenta la radice dell’albero.

Un soldato è un fatto politico, per la maggior parte delle persone. Invece no. E’ un uomo. Un uomo. Solo un uomo.

I suoi confini non si esauriscono nella divisa, le sue mani non toccano solo la polvere dei giorni di guerra, non compiono l’arco meraviglioso di una carezza soltanto per finire sul dorso di un fucile.

Ma il soldato diventa oggetto di schieramenti, di manifestazioni, di schieramenti politici. Esaltato o denigrato, eroe o assassino, finisce sempre per rimanere incastrato nella bandiera della sua patria. Per quanto onorevole, e bello, e dignitoso possa essere, dobbiamo ricordarci che è molto di più. La sua vita è molto di più.

A volte mi viene voglia di ricordare non i soldati caduti, ma i civili spezzati. Quei civili aggrappati alla divisa, ormai vuota, del loro caro riconsegnato in una scatola di alluminio (non tiene caldo, la bandiera  che ci appoggiano sopra, e non cuce i giorni strappati). E mi viene voglia di ricordare ogni civile che vive dentro e dietro il soldato, e che la sera, al buio, si interroga sull’onore e il servizio, si chiede se valgano il sorriso di un figlio. E poi magari ricomincia, la mattina. Ma ogni notte, ne sono certa, torna a essere un uomo. Che ha bisogno delle braccia della sua donna avvitate intorno al torace, del respiro tranquillo del bimbo, profondo, fiducioso e sereno come solo quello dei bambini nel sonno sa essere, di quella rompiscatole della madre che la mattina chiama sul cellulare e domanda: "Allora, quando venite a pranzo da noi? Hai preso la sciarpa? Guarda che oggi fa freddo".

Dieci, cento, mille Nassirya?

Imbecilli.

C’è un momento molto bello, nel film, che restituisce un bagliore di umanità anche alla figura dei kamikaze. Gente che si fa saltare per aria in cambio di un sedile in prima fila e una manciata di vergini nel paradiso di Allah. Nell’immaginario occidentale il kamikaze è sempre e solo sicuro di sé, felice di rinunciare alla vita.

Be’, l’immagine dell’uomo che trema davanti alla sua scelta, esitando, vibrando di fragilità nella sua carne mentre subisce l’abluzione dei Puri prima del sacrificio, e che mentre guida il camion pieno di tritolo verso la base italiana ha gli occhi attraversati dall’imbarazzo della paura, ci ricorda che magari non è mai facile scegliere di morire. Neanche per Dio.

 

Io non vorrei che cadesse nessuna foglia, a primavera. In nessun luogo del mondo. Nè fra i soldati nè fra i civili.

Invece continuano a cadere, quelle foglie. Non riescono a vedere l’autunno.