Visita anche: Editoria e Scrittura | La stanza di Virginia | Silmarillon | Stylos | La mia Istanbul
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Una sera, in un remoto college di provincia, dov’ero capitato in occasione di un giro di conferenze che si era prolungato oltre il previsto, proposi un piccolo quiz; su dieci definizioni del lettore, invitai gli studenti a scegliere quattro risposte che, messe assieme, indicassero i requisiti del buon lettore. Ho smarrito quell’elenco, ma, per quanto ricordo, le definizioni erano più o meno queste. Un buon lettore dovrebbe:
1.appartenere a un club del libro
2. identificarsi con l’eroe o l’eroina
3.concentrarsi sull’aspetto socio-economico
4. preferire una storia con azioni e dialoghi a una che non ne ha
5. aver visto il film tratto dal libro
6. essere un autore in erba
7. avere immaginazione
8. avere memoria
9. avere un dizionario
10. avere un certo senso artistico
Gli studenti si mostrarono in massima parte favorevoli all’identificazione emotiva, all’azione e all’aspetto socioeconomico o storico. Ma, naturalmente, come voi avete intuito, il buon lettore è chi ha immaginazione, memoria, un dizionario e un certo senso artistico, quel senso che mi propongo di sviluppare in me e negli altri ogni volta che mi si presenta l’occasione.
(Vladimir Nabokov, Lezioni di Letteratura)
E noi, che lettori siamo?
Per quindici anni ho fatto della lettura (e della scrittura) il mio mestiere. Prima una rivista culturale, poi un’agenzia letteraria e una nuova rivista di informazione editoriale, ora una rivista online e uno studio di editoria e comunicazione…
E sempre, in questi anni, ho letto. Consulenze editoriali, editing di romanzi, recensioni…
Mi interrogo da quindici anni sul famoso "buon lettore". Su come dovrebbe essere. E ha ragione lui, ha ragione Nabokov, il buon lettore deve avere immaginazione e disciplina. Usando le parole di Borges, un altro gigante della letteratura, direi che deve essere "algebra e fuoco". Sì, algebra e fuoco. Possedere, cioè, il rigore senza però smarrire il sentimento, la pelle d’anima che sconfina nel mondo, che palpita dondolandosi sulle parole.
Le letture cerebrali, quelle che innamorano solo la mente, non approdano a nulla. Se ne stanno lì, con le loro belle paroline pettinate (odio le parole pettinate), tutte in fila, organizzate come soldatini.
La mente deve essere corrosa, deve incrociare, sulla sua rotta, un grimaldello che ne scardini la fortezza, arroccata intorno alla logica, per introdurre un brivido, quel famoso "brivido alla spina dorsale" di cui parla lo stesso Nabokov.
Senza quel brivido non c’è nessuna buona lettura. Nessun lettore.
Questo non significa votarsi esclusivamente alla pancia, al mondo emozionale. Occorre trovare il cuore, luogo di sintesi e transito del nostro nord e del nostro sud. Occorre farlo anche nella lettura.
La lettura professionale è difficile, impegnativa. Devo scansare i mie gusti, mollare gli ormeggi della mia estetica per navigare acque sconosciute, ignote, tese verso orizzonti che non mi corrispondono. Ma devo farlo, non posso confinarmi nell’orticello privato delle mie inclinazioni.
Cercare di essere oggettivi. Si può essere mai realmente oggettivi, anche davanti a un libro? Ci sarà sempre uno scampolo di proiezione, un residuo persistente che dice di me, che mette me nel giudizio sul testo.
Eppure devo tentare di essere imparziale, come farebbe un giudice. Ma chi sono io per giudicare un libro? Il peso della lettura professionale, dopo anni, vorrebbe liberarsi dei trucchi del mestiere per respirare di nuovo l’ossigeno della libertà. Libertà di scegliere secondo i miei gusti, le mie convenienti o sconvenienti passioni, poco importa.
Forse è per questo che mi sto ritirando dalle consulenze editoriali, che sto concentrando la mia attenzione solo sul giornalismo, mia antica passione, origine e ritorno di ogni perlustrazione.
Forse voglio tornare – e in modo definitivo – a essere una lettrice qualunque. Una lettrice che non è pagata per leggere, che non deve trovare refusi, lavorare sul testo o scrivere una quarta di copertina. Nè deve elaborare una scheda di valutazione infrangendo il sogno di un aspirante scrittore.
Insomma, voglio tornare a leggere accartocciata sul mio divano, con la pioggia che cade dalla finestra, tic tic tic, il gatto accoccolato nell’incavo delle ginocchia, il plaid giallo che gira intorno come una nuova soffice.
Voglio leggere così, in modo sparpagliato, senza obblighi e senza orari. Senza che nessuno mi chieda cosa ho letto, o pretenda un resoconto professionale.
Libri di nuovo clandestini, confidenti privati, depositi di sospiri remoti, battiti d’ala di sincronie improvvise nelle quali un altro mondo entra e confonde il perimetro della realtà.
Leggerli sgranocchiando un dolcetto, ciondolando sul tempo che se ne va senza urgenze.
Sarà stata una buona lettrice, nella mia professione? E sono una buona lettrice nei momenti privati, quelli in cui un romanzo mi spoglia finalmente degli abiti professionali lasciandomi lì, nuda, a rabbrividire in mezzo alla danza delle parole? Sì, ecco, di nuovo, finalmente. Quell’antico e ritrovato piacere segreto che ogni lettore sa, e che non vuole condividere con nessuno.
Accade quando qualche parola trema nel giardino del nostro cuore, abbassandone le difese.
Succede a tutti i buoni lettori. La lettura "di testa" non serve, come inutili sono le ruminazioni di concetti e pensieri. Neanche ci aiuta l’identificazione con il protagonista, che si rivela sempre fallace non appena, una volta cresciuti, i nostri passi non coincidono più con i suoi (ecco che allora nella rilettura avvertiamo un senso di straniamento, una sensazione di imbarazzata cordialità, come con qualcuno che abbiamo un tempo conosciuto ma di cui non rammentiamo neppure il nome).
Ci aiutano invece quegli attimi in cui veniamo scagliati, attraverso le nostre letture, nella vertigine extratemporale in cui galleggiano confini più grandi del nostro, e del mondo che ci contiene, ecco che allora sentiamo quel famoso brivido di cui parla Nabokov.
Essere buoni lettori è un’impresa. Possiamo diventare eruditi, collezionare a memoria, con pappagallesco sapere, i titoli di ogni saggio e romanzo, con tanto di sinossi allegata, oppure annegare nelle emozioni evasive di avventure che pizzicano i sentimenti, attardandosi sul romanticismo con il quale tentiamo di scalare il muro delle nostre giornate.
Ma in questo modo non saremo mai buoni lettori. Nè in privato né nella nostra professione.
Richiedono due atteggiamenti diversi, i libri letti a casa e quelli letti in redazione. Ma hanno anche tanti punti in comune. Si incrociano più volte nei territori della sensibilità, stringendosi attorno al lettore che insegue il filo di ogni parola, tessendone il canovaccio dal quale ci guarda, invisibile, il volto eterno di ogni scrittore.
Ecco, sì. Tutti i lettori del mondo si somigliano in queste segrete armonie. Per ognuno diverse e uguali.
Non so se sono una buona lettrice, ma ci provo e ci ho sempre provato.
Ho scoperto che "il mestiere" deve comunque ogni volta tornare a lezione, frequentando le classi della maestra umiltà.
Nessun lettore, altrimenti. Ma solo suggestioni in odore di presunzione.
Se ricordassimo, ogni volta, che leggere non ci rende automaticamente migliori, aprendo invece solo una porta, una possibilità verso uno scatto della coscienza, sapremmo essere sicuramente, al di là di ogni divertito decalogo, buoni lettori.
Io, da parte mia, continuo a provarci. Goffamente, a volte. Ma insisto.
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Noi non sappiamo nemmeno dove sia ora ciò che è vivo, e che cosa sia, come si chiami. Lasciateci soli, senza libri, e ci confonderemo subito, ci smarriremo: non sapremo dove far capo, a cosa attenerci; che cosa amare e che cosa odiare, che cosa rispettare e che cosa disprezzare. Noi sentiamo perfino il peso di essere uomini: uomini con un autentico e nostro corpo e sangue; ce ne vergognamo, lo consideriamo un disonore e cerchiamo di essere non so che immaginari uomini universali. Siamo dei nati-morti, ed è già un pezzo che non nasciamo più neppure da padri vivi, e questo ci piace sempre di più. Ci prendiamo gusto. Presto escogiteremo il mezzo di nascere in qualche modo da un’idea. Ma basta, non voglio più scrivere "dal sottosuolo"…
(Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo)
Qualche giorno fa, con la persona che mi è più cara al mondo, sono stata a visitare le grotte di Collepardo.
Era la prima volta che entravo in una grotta. Sono rimasta stordita, affascinata. Le rocce annerite su cui gocciolava l’acqua, insistente, come una memoria scomoda, mi parlavano con un linguaggio muto fatto di echi sommersi, di sospiri trattenuti, di segreti di pietra e di fuoco.
L’antro buio, le stradine illuminate da piccole luci artificiali costeggiate dai pilastri rocciosi su cui sembravano issati occhi umani, la volta fuliggionosa il cui silenzio immemore era interrotto solo dalla presenza dei pipistrelli (udibili ma non visibili, unica forma di vita in quel luogo di ombra e di terra) formavano un paesaggio spettrale e allo stesso tenpo accogliente.
Qui, tanti anni fa, quando eravamo ancora vicini alle stelle da cui eravamo caduti, avevamo celebrato i riti ctoni della Grande Madre, la Terra possente che ci nutre e contiene.
Qui avevamo vissuto, lontani dalla ferita del sole.
Qui avevamo ascoltato il cuore della terra, il tamburo che batte al suono dell’acqua che cade sulla pietra trasformandola, corrodendola, donandole nuova forma.
Ebbene, quel cuore stava suonando per me. Potevo sentirne il battito quasi impercettibile, come un soffio di brezza.
Camminavo in quel sottosuolo ignoto che sembrava conoscere ogni mio pensiero remoto, ogni scatto dell’anima, ogni segreto.
Un paesaggio magico, notturno, evocatore dei crocicchi nei quali l’antico viandante incontrava Ecate.
Accarezzavo le rocce seguendone con il dito le forme singolari, figlie di un’umidità senza sole, quel sole assente che qui non penetra mai per ferire lo spazio con la sua luce.
Ho pensato a quanto somigliavano, quelle grotte, ai sotterranei del nostro inconscio, luogo di dimenticati sepolcri e di notturne terre inesplorate.
Come una grotta è impermeabile alla luce solare della quale neppure sospetta l’esistenza, così l’inconscio non conosce la superficie rettilinea e razionale del nostro pensiero.
Non a caso gli antichi affidavano al Sole le valenze del pensiero razionale, cosciente, riservando alla notte e alla Luna i misteri e i pericoli della magia, delle ombre remote in cui l’uomo si perde.
"Portare alla luce" significa infatti consegnare alla coscienza le nostre cantine uggiose, ingombre di irrazionali tremori, di fantasmi sepolti, di angosce che erano prima che la notte fosse, prima del tempo, di ogni nostro tempo.
Dove il sole non batte cresce il muschio delle nostre paure. Eppure allo stesso tempo è lì che si celano gli arcani dell’anima, è lì che può brillare il nostro sole di mezzanotte.
Il furore ctonio può essere anche violento, come Ade che rapisce Persefone trascinandola sotto la superficie terrestre (ma se non l’avesse rapita Demetra non l’avrebbe cercata, e non sarebbero nati i Misteri Eleusini). Senza la protezione del sole i fantasmi sgusciano via dalle rocce affollando le nostre stanze, riempendole con il magma incandescente del non conosciuto, orrore e terrore di ognuno, perfino di chi si professa libero, di chi anela al pionierismo dell’anima.
Le nostre grotte sono accoglienti, ma si tratta un’accoglienza diversa, riservata solo all’avventore che avanza con la lanterna del coraggio per illuminare la notte oscura dell’ignoranza.
Conoscere sé stessi vuol dire percorrere queste grotte, piene di incubi, scheletri, mostri.
Il tempo del sottosuolo non è quello della vita sulla superficie, scandita dalle lancette di un orologio che costringono l’uomo nell’illusione di un rettilineo procedere, di un prima e di un dopo.
Qui, nel sottosuolo, tutto è. Non sarà, nè mai fu. È. Adesso, ora, qui. Senza presente o passato.
La meridiana solare non segna nessun procedere nella terra delle ombre che avvolgono ogni cosa nell’immobilità di un tempo non tempo, mai scalfito da una successione.
Tempo di sospensione, di sogno, di incubo. Tempo di conoscenza senza coscienza.
Mentre camminavo in mezzo alle grotte pensavo a quel ventre pietroso, culla occulta di ogni nascere e di ogni morire, ragione dell’assenza del sole, matrice di nebbie che avvolgono l’umano destino e allo stesso tempo forbice che taglia il velo lanuginoso dietro il quale si nasconde ogni perché.
La Madre Terra è oscura, misteriosa. Danza una danza immobile.
La sua veste è di tenebre, di abisso ogni suo sguardo.
Eppure mi seduce come un’amante scomodo che aggroviglierà il nostro futuro e che tuttavia non riusciamo a schivare.
Come la Iside dei Tarocchi, lei tiene in mano le chiavi della mia conoscenza. Ma si soffoca, quaggiù, senza luce.
Niente rumori familiari. Nè alberi, nuvole e piante. Solo roccia, solo forme a volte diaboliche, solo gocce d’acqua che cadono schiantando al suolo ogni pensiero.
Ecco sì, respiro con lei. Quaggiù, in queste grotte, la terra mi racconta dei miei sottosuoli.
Quanti pipistrelli non ho ancora sentito volare quel volo strano fatto di cerchi, come un sasso lanciato nell’acqua; quanti volti di pietra non ho mai visitato (forse per timore di fare la fine della moglie di Lot, trasformata in una statua di sale); quanti scantinati ho lasciato pieni di memorie scomode.
Percorrere quella grotta è stato un po’ come trovarmi nella regione in cui il pensiero di ferma, in cui la notte delle emozioni cala il mantello sul governo dell’Io.
Sensazioni strane, fatte di stupore e sospetto.
Chissà, forse è per questo che a un certo punto qualcosa premeva sul petto, costringendomi a cercare immediatamente l’uscita, come fossi un pesce tirato fuori dall’acqua.
Ma quando ho raggiunto l’uscita, la luce del sole non mi ha promesso conforto. Ho invece avuto la sensazione di aver perso qualcosa. Vedevo di nuovo le nuvole, i colori, le forme. Sentivo gli uccellini gioire della giornata primaverile. Tutto era di nuovo nitore, perimetro, consistenza. Ma mancava qualcosa.
Mancava la magia della profondità. La notte del nostro soggiorno terreno, di cui la grotta è simbolo e segno, ci invita al mistero di un altrove remoto in cui si cerca l’origine.
Forse, laggiù nella grotta, ho avuto paura dei miei mostri, ho temuto le contraddizioni, gli smottamenti delle certezze.
Eppure in superficie il sole sembrava quasi rapire la forma di conoscenza maturata nell’ombra.
Capii, in quel momento, perché Ade aveva rapito Persefone. E perché Demetra aveva così celebrato, alla fine, i misteri a Eleusi.
Solo che non ero ancora pronta. Non ancora.
L’altro giorno, a casa mia, un amico mi rimproverava la posizione sghemba dei libri ammucchiati su scaffali ormai invasi, troppo stretti, come un golfino infeltrito.
"Sono creature – mi ha detto – hanno bisogno di stare dritte".
Una frase bellissima. Vera, probabilmente. Solo che ognuno, i libri, li vive a modo suo.
Proprio perchè sono vivi, febbricitanti, i volumi della mia libreria condividono il disordine che anima la mia esistenza. Sono ammucchiati, sparpagliati, eppure non naufragano via in cerca di bussola. Semplicemente respirano il mio modo di essere, all’unisono con l’anarchico ordine (può sembrare assurdo, ma non lo è) in cui ogni cosa che si smarrisce viene trovata. Sì, insomma, come in un gigantesco frattale. Li ho amati, annusati (da quando ero piccola infilo le mie narici in ogni libro, con voluttà e persistenza), segnati; ne ho piegato le orecchie (ma ne ho assorbito la capacità di sentire), accarezzato il dorso come si fa con un amante dopo l’amore, disegnato il profilo nello scaffale. Alcuni hanno buoni vicini di casa, vanno d’accordo, altri si trovano un po’ spaesati, in compagnia di alcuni titoli con i quali non hanno nulla in comune (ma alla fine si rilassano e convivono, lo fanno meglio di quanto riusciamo a fare noi). Mi guardano dalla libreria, mi invitano a repentine riletture, a ricerche esasperate davanti a un romanzo scomparso, a piccole soste con gli occhi che innestano il carburante della memoria. Altri attendono di essere letti. Così, con pazienza. Sanno che prima o poi accadrà. E se non accade, va bene lo stesso. Sono meno ansiosi di noi, loro.
Ma non sono soldatini, i miei libri. Non sono intruppati in reparti. E neppure per autore. O per collana.
Stanno lì, randagi. Si spostano soffiati dal vento dei miei umori, che ora ne mette in evidenza alcuni, ora altri. Ma sono sempre accuditi. Perfino quando qualcuno di loro finisce con il dorso girato (ancora più prezioso il suo ritrovamento).
La mappa della mia libreria è casuale, come il tiro di un dado. Ma allo stesso tempo rivela tracce precise, ondulazioni tra passato e presente che scavano un’ansa nel tempo, cullandosi in uno spazio lontano. E’ stropicciata. Sì. Somiglia più a una strada sterrata che a una via di cemento. Ma il suo essere selvaggia, il suo rifiutare l’addomesticamento di spazi e percorsi, è anche lo spazio di libertà in cui la vita si abbandona a sé stessa.
Certo, a volte sono costretta a lunghe ricerche. Ma ne vale la pena. I libri privilegiati, invece, godono di uno spazio particolare, accanto al divano, impilati senza un perché ma con un quando. Quando li leggerà? Ora, presto, domani. Più tardi. Non importa. Importa cercare.
E capire che ogni libreria ha le sue mappe e i suoi tesori.
Bisogna rispettare chi fa dei libri una reliquia, accudendoli come anziani all’ospizio (in effetti alcuni di loro sono molto vecchi), ma allo stesso tempo capire che si possono anche vivere così come si fa, a volte, con la vita: spargendoli intorno e dentro di noi, strusciandoci fisicamente la nostra esperienza, che li strapazza insieme alle rughe che compiono i nostri giorni.
Si possono bere e mangiare, i libri. Hanno suoni, odori e sapori.
Dalla libreria assistono, immobili, al nostro affaccendarci di formiche intorno alla tavola apparecchiata dei nostri giorni.
Eppure si muovono, dentro e fuori, dentro e fuori, tic tac, come le lancette di un orologio. Ed è la memoria a conservare nella testa e nel cuore i doni più belli che ci hanno fatto.
Molti di noi sognano i titoli che rileggeranno in vecchiaia. Mi sono ripromessa di rileggere Proust, ad esempio. Tutto, di nuovo. E poi anche un po’ di Borges, di Calvino, di Woolf.
Quanti appuntamenti mancati, in alcuni libri che non ho avuto o voluto leggere. Ma sono come le occasioni perdute, come quei famosi treni che passano. E poi chissà, a volte la vita ti rimette davanti una situazione, il treno ripassa, forse si ferma. Anzi sono io ad abbassare il passaggio a livello fermandomi, con la valigia del tempo, davanti allo scaffale in cui quel famoso libro mai letto mi stava aspettando.
Ma molti ancora vorranno essere letti.
So che forse non ne avrò il tempo, e tuttavia la consapevolezza non corrode il gioiello del sogno.
Ognuno di noi conosce i segreti della sua libreria. Sa quali libri sono stati importanti, come i grandi amori, quelli rari, quelli che il cuore conserva con un sussurro; e sa quali invece sono stati solo comparse, intersezioni veloci, fugaci, che hanno lasciato un pallido segno.
Ci sono i libri mai finiti (perché non si deve finire un libro, il rapporto è libero, è anche uno scavo interrotto), quelli invece su cui gli occhi si sono attardati più volte, quasi sbiadendo – come per magia di costanza – i colori della copertina.
Le posizioni che assumono nella nostra biblioteca sono percorsi, direzioni dell’anima, indicatori del rapporto con il loro lettore.
I miei, lo ripeto, vivono una vita scarmigliata. Un po’ come me. Ma sanno di essere lì, alla rinfusa, pronti però a ogni nuova avventura, a ogni spostamento dettato dal caso o dall’intenzione.
Ogni lettore possiede la mappa della sua libreria. É una faccenda personale.
L’importante sono i tesori ai quali la mappa conduce. E quei tesori non stanno comunque nei libri, ma nel respiro allargato della nostra coscienza.
La vita è un nastro rosa lanciato su un abisso
(Virginia Woolf, Diari)
Nel giorno delle manifestazioni per la famiglia, nel giorno degli orgogli laici, preferisco restarmene a casa a rileggere qualche pagina incendiata da un coraggio vero.
Sì. Perchè è facile manifestare e contromanifestare sventolando come santini al vento i propri colori di appartenenza,
Più difficile restare a casa a meditare su quanto accade: al di là delle smanie presenzialiste chi ha ragione davvero? Tutti. Nessuno.
In fondo, da ogni idea bisogna risalire alla realtà che si fa voce nel quotidiano, in ogni singolo evento sganciato dal pre-giudizio.
E tuttavia oggi la massa mi suggerisce un’assenza.
Dove sono, oggi, i fermenti vitali di Bloomsbury? Nel nostro tempo presente tutti manifestano come pecore dietro un pastore. Poco importa che questo pastore vesta la tunica bianca del padre o si annodi la cravatta politica.
L’importante è "esserci".
E il pensiero? Quello individuale, quello che si fa poi coro in una sperimentazione reale, al di là dei confini usuali?
Già, il pensiero. Quello che dissente. Che crea. Che osa.
Come sono tisici i nostri intellettuali di oggi rispetto ai bagliori fiamminghi del gruppo di Bloomsbury.
Tutti lì, i nostri, ognuno a tifare per la sua brava corrente ideologica, seduto sul divanetto di Mentana oppure di Vespa, la bocca piena di ciance masticate in continuazione (come fanno le pecore, appunto), la testa invasa da pensieri sommari.
Oggi non manca nessuno. Ci sono la gente comune, le autorità, i gruppi, i distintivi.
E mentre ripenso a Virginia Woolf, al suo gruppo che di ogni cosa faceva domanda che richiede scavo, rileggo questa frase bellissima e allo stesso tempo spigolosa come uno schiaffo.
La vita è un nastro rosa teso su un abisso.
Eccolo, il benvenuto silenzio mobile, in cui la mente guizza sulla sua transitorietà in cerca di immutabile sponda, e fa da contraltare a questa giornata paralizzata da troppe parole.
Siamo così fragili, tutti. Siamo nastri gettati su questa esistenza, che procedono guidati dai movimenti dell’aria, basculando pensieri, agitando desideri e proiezioni destinate comunque a sfracellarsi su un suolo che non si raggiunge mai ma che alita, minaccioso, soffiando sul vento delle nostre paure.
Miserabili, piccoli uomini, stiamo appesi alle nostre idee facendo della massa la resistenza da opporre a questo abisso.
Ma tanti piccoli fiocchi rosa scivolano comunque verso il loro destino. Che sia individuale o collettivo, il fiocco trema e oscilla davanti alla finitezza della sua condizione.
Uniti nei cortei, i piccoli fiocchi si illudono di essere "grandi", facendosi forza l’un l’altro.
Bene. Così sia. Ma quanta forza, invece, nel coraggio di accettare l’abisso di questa esistenza. Che contiene tutti quanti. Ogni corteo, ogni papa, ogni laico. Ogni idea e ogni giudizio.
Se penso al nastro rosa di Virginia, tutto il resto mi sembra così transitorio e ridicolo. E allo stesso tempo importante in quanto guado da attraversare.
E mentre avanza verso l’abisso, l’uomo può solo cercare sé stesso.
La forza di quelli di Bloomsbury stava in una ricerca di superamento del fiocco che però sbarrava l’accesso alle strutture mentali pantofolaie, cercando inconsapevolemente nel fuoco sacro della creazione un altro fuoco che solo l’anima, libera, può toccare senza bruciarsi.
E anche loro si sgretolarono sulla pelle di passero delle loro esistenze. Toccò a tutti. perlomeno, però, cercarono una voce fuori da coro.
Oggi, a Roma, ci sono invece troppi cori. E nessun solista.
Il mondo sta cambiando molto in fretta, Chi è grande non sconfiggerà più chi è piccolo, ma chi è veloce batterà quelli che sono lenti
Rupert Murdoch
Dobbiamo avere il coraggio di guardare in faccia la realtà. Il mondo sta cambiando, e il giornalismo tradizionale è in crisi. Non basta fare i gadget (l’edicola è ormai un bazar dove trovi di tutto, dallo scialle al rossetto, dal libro al dvd): i quotidiani sono attaccati al respiratore e se si stacca quel respiratore (i gadget, appunto) si collassa imemdiatamente. Decresce la pubblicità sulla carta stampata a favore della migrazione su internet, diminuisce il numero dei redattori (tagli drastici in Europa e in America, negli ultimi anni), aumenta la free press.
Vittorio Sabadin ha scritto un libro prezioso, L’ultima copia del New York Times, in cui racconta i cambiamenti drastici che la stampa sta attraversando. E racconta le crisi, le resistenze.
Ma non si può fermare il cambiamento. Dunque è meglio adeguarsi.
Ho vissuto per quindici anni in mezzo alle riviste cartacee. Le ho costruite, insieme ad altri, numero su numero, timone su timone, pezzo su pezzo. Fino a pochissimi anni fa non riuscivo neanche a concepire l’idea che questo mezzo non fosse l’unica soluzione possibile per il giornalismo scritto. E invece oggi dirigo una rivista online, mi diverto a progettare inserti multimediali e soprattutto cerco di integrare gli aspetti tradizionali con quelli più moderni, attuali.
Ho dovuto vincere le mie resistenze. Ma l’ho fatto. E ho capito che la carta stampata non sarà il futuro del giornalismo. Non sarà l’unico futuro, almeno.
Certo, è bellissimo trovare conforto nella solidità della carta, nel suo odore, in quelle distese di parole che si possono toccare, sniffare, accartocciare. Eppure è anche necessario capire che il web potrà affiancargli un giornalismo efficace, magari diverso, sì, ma efficace.
Specie se i quotidiani tradizionali continueranno a chiudere gli occhi, a voler proseguire una linea di fatto già sconfitta.
Aprire il Corriere della Sera in metropolitana è come stendere un lenzuolo matrimoniale sul letto di una formica.
Gli articoli culturali di Repubblica a volte fanno svenire anche il più erudito dei lettori.
E poi la lontananza dalla gente. Tanta. Troppa. Mentre il giornalismo dovrebbe per sua natura essere vicino alle storie fatte di carne, di sangue, di sudore.
Invece continua a ossequiare i padroni, cioè i gruppi politici ed economici che influenzano le linee editoriali con le loro brave pressioni.
Ed ecco che nasce il citizen journalism, ecco che i blogger americani battono i giornalisti nel dare la notizia in tempo reale o nello scovare dettagli sconosciuti (spesso scomodi).
Ci eravamo innamorati, tutti, di tutti gli uomini del Presidente. Ma dobbiamo anche vedere cosa succede davvero, oggi. Dobbiamo vedere la debolezza delle redazioni, i bavagli e le parole schierate.
Forse internet non è il nemico ma è invece carburante per un risveglio, una reazione.
Di certo, così non si va avanti. Un po’ di pepe nel deretano certamente non guasta.
Non bastano, però, le letteronze di Maria Latella che risponde ai lettori nella sua mezza paginetta, quando poi le cronache locali romane sono infestate da settagli su Provincie, regioni, imprenditorie e costruzioni. E la gente? Che succede davvero in città, oltre alle solite, drammatiche notizie di cronaca nera?
Come respira la città? (O come soffoca, dati i livelli di inquinamento). Che si dice? Come si conciliano tutti i colori del mondo in una metropoli che continua a essere così provinciale?
Quanti articoli si potrebbero fare. Ma non vanno bene. Non fanno gli interessi dei politici e degli imprenditori. Quelli della gente, oggi, sono minoritari.
Il giornale è un luogo di potere i cui spazi sono contesi come jene con una carcassa.
Dio mio, e se la carcassa fosse proprio quella del giornalismo?
O meglio, di un certo tipo di giornalismo?
Perché comunque la voglia di raccontare, l’urgenza della notizia, la voglia di dire e di scrivere cosa succede non moriranno. Ma cambieranno forma, probabilmente. Questo sì. E per fortuna