Visita anche: Editoria e Scrittura | La stanza di Virginia | Silmarillon | Stylos | La mia Istanbul
Visita anche: Editoria e Scrittura | La stanza di Virginia | Silmarillon | Stylos | La mia Istanbul
Siamo figli dell’epoca,
l’epoca è politica.
Tutte le tue, nostre, vostre
faccende diurne, notturne
sono faccende politiche.
Che ti piaccia o no,
i tuoi geni hanno un passato politico,
la tua pelle ha una sfumatura politica,
i tuoi occhi un aspetto politico.
Ciò di cui parli ha una risonanza,
ciò di cui taci ha una valenza
in un modo o nell’altro politica.
Perfino per campi, per boschi
fai passi politici
su uno sfondo politico.
Anche le poesie apolitiche sono politiche,
e in alto brilla la luna,
cosa non più lunare.
Essere o non essere, questo è il problema.
Quale problema, rispondi sul tema.
Problema politico.
Non devi neppure essere una creatura umana
per acquistare un significato politico.
Basta che tu sia petrolio,
mangime arricchito o materiale riciclabile.
O anche il tavolo delle trattative, sulla cui forma si è disputato per mesi:
se negoziare sulla vita e la morte
intorno a uno rotondo o quadrato.
Intanto la gente moriva,
gli animali crepavano,
le case bruciavano
e i campi inselvatichivano
come nelle epoche remote
e meno politiche.
(Szymborska, Gente sul ponte)
Non c’è niente da fare. Non si può sfuggire al fatto che ogni cosa sia anche politica. Si può non votare, evitare di scegliere un partito, schivare giornali e trasmissioni televisive, rintanarsi nella grotta della Sibilla, ma la politica è sempre lì.
In ogni gesto, ogni pensiero, ogni parola. Illudersi di esserne immuni significa cadere in un tranello magnifico.
D’accordo, non ci piace, questa politica. Non assomiglia neanche un po’ agli ideali luminosi della Repubblica sognata da Platone e da altri filosofi che nelle epoche hanno provato a tracciare una strada, un’etica, un percorso in cui gli esseri umani potessero, accidenti, diventare meno lupi e più uomini.
Diciamo, anzi, che forse mai come in questo vagito del nuovo millennio, e nell’estrema unzione di quello appena defunto, la politica ha scoraggiato chi crede nella possibilità di un mondo governato dalla giustizia e dalla libertà, al di là della cortina prodotta da una democrazia molte volte illusoria (ma questa è un’altra storia, complicata, ci torneremo un’altra volta).
Però non possiamo fuggire, ficcare la testa sotto il cemento delle nostre metropoli per non vedere che là fuori, e intorno a noi, muore il sogno, la possibilità di un futuro per i nostri figli, l’adesione a una realtà finalmente emancipata da quel maledetto anello di potere che corrompe ogni pezzettino d’oro sparso qua e là.
Anche non votare è un gesto politico. Come politico è ignorare ogni fatto politico.
Pia illusione, quella di non volersi "sporcare le mani" con gli intrighi di Palazzacci, i naufragi nei Translatlatici, i triangoli tra politica, economia e informazione.
Molti si rivolgono all’arte, ai libri, alle meditazioni, coltivando nobili virtù mentre però altrove, nel mondo, prosegue l’olocausto dell’etica, avanzano gli stermini del diritto (e del dovere, ricordiamocelo bene) e della solidarietà fra esseri umani.
Non partecipare è una resistenza assai blanda. Sembra un po’ quella degli ignavi di Dante.
E tuttavia va bene anche questa, a patto che si dica la verità. E cioè che ce ne stiamo lavando le mani. Certo, "turarsi il naso" per tuffarsi nelle puzze della politica non è uno sport lusinghiero. Ma è necessario. Perché di fatto ogni atto è comunque, ripeto, un gesto politico.
Non si scappa dal mondo. Solo gli eremiti reali, non quelli immaginari, in fuga da sé e dalle proprie nevrosi, sono forse capaci di una "politica" superiore, quella di un regno celeste.
Ma per gli altri (Chiesa inclusa) la vita è politica. Dunque occorre schierarsi. "Estensione del dominio e della lotta" oppure tentativo di virare prima che il Titanic raggiunga l’ iceberg?
Nel "meno peggio" dobbiamo trovare la forza di fare una resistenza. Così come ogni giorno, la nostra polica personalissima, quella che si sovrappone e si mescola alle macro-politiche dei nostri sistemi, influenza e condiziona chi ci sta accanto.
Ma non basta, questa nostra politica, se la disinneschiamo da una partecipazione più ampia e, soprattutto, se crediamo così di evitare quella cosa schifosa (sì, in gran parte lo è ) che è la politica dei governi, delle istituzioni, dei popoli.
Qualcuno mi parlava, recentemente, del fatto che ci sono solo due modi di affrontare il potere: usarlo oppure esserne usati.
Così questa persona ha scelto di diminuire i "gradini" di potere che possono influenzarla, condizionarla, appropriandosene e cercando di usarli per ottenere più libertà.
Perfetto. Non fa una piega.
Purtroppo la vita è lotta, è scelta continua, schieramento. Anche nello scegliere, ogni giorno, fra Bene e Male, l’uomo è costretto a non abbandonare mai la sua arena.
Dunque ripararsi un un aureo castello al di fuori delle cose del mondo (che sono cose politiche, sempre nell’accezione offerta anche da quel genio scintillante della Szymborska), ignorando i fatti "là fuori" e i gruppi che prendono posizioni, serve piuttosto ad ammantarsi di stelle che però somigliano, guarda un po’, alle patacche che si appendono sulle divise di poliziotti e marinai.
Insomma, per quanto difficile, il balugìnio di questo mondo richiede presenza, coraggio. Consapevolezza dell’importanza di essere ma anche di essere, allo stesso modo, inseriti in una Terra vibrante in cui ogni nostra scelta, perfino la più stupida, insignificante, ha un colore politico.
Possiamo fingere che non sia così. Ma appesantiremmo di più il già spesso velo di Maya. Che a volte sembra davvero una coltre.
E incomincia a pensare se alla donna non vada attribuita una parte non lieve del male sociale. Come può un uomo che abbia abuto una buona madre divenir crudele verso i deboli, sleale verso una donna a cui dà il suo amore, tiranno verso i figli? Ma la buona madre non deve essere, come la mia, una semplice creatura di sacrificio: deve ssere una donna, una persona umana.
E come può diventare una donna, se i parenti la danno, ignara, debole, incompleta, a un uomo che non la riceve come sua eguale ne usa come d’un oggetto di proprietà; le dà dei figli coi quali l’abbandona sola, mentr’egli compie i suoi diveri sociali, affinché continui a baloccarsi come nell’infanzia?
(Sibilla Aleramo, Una donna)
Se pensate alle esternazioni di Veronica Lario in Berlusconi lasciate perdere. Si tratta di ben altro contesto. Con questo non vogliamo sindacare sulla scelta di fare di un rapporto di coppia un tour mediatico (pur attrezzati delle proprie sacrosante ragioni), di pubblicare una lettera privata su un quotidiano, di rendere "istituzionale" una crisi matrimoniale. Se ne stanno impicciando giornali e televisioni, che ci sono buttati come scrofe sul fango.
Qui vogliamo invece rendere omaggio a Sibilla Aleramo. Folle, selvaggia, inquieta.
La sua scrittura tesa, sempre sul bilico della vertigine, dell’affanno, salvo poi ricompattarsi, accesa da una fiamma di speranza, restituisce alle parole quella vibrazione profonda dell’essere in cui si specchia l’anima di una donna che ha fatto della sua vita una battaglia costante.
Ma Sibilla non è solo la scrittrice lucida, spietata, è anche un’ esploratrice della condizione femminile che sente di dover riscattare dai soprusi di troppi silenzi nei secoli. Da queste considerazioni agli eccessi del femminismo contemporaneo c’è una distanza simile a quella che occorre per attraversare a piedi il deserto del Gobi.
Fu sempre una combattente, Sibilla. Verissimo. E soprattutto non distolse lo sguardo dalla penosa condizione di un femminile consegnato a matrimoni polverosi, sbiaditi, proprio come quello di sua madre, che fu motore e carburante per la sua personalissima rivoluzione esistenziale.
A lei chi scrive ha dedicato un articolo sul primo numero di Silmarillon.
Non è un caso scegliere di battezzare una rivista parlando di una donna che ha vissuto numerosi scompigli senza mai abbassare il capo. Una donna che ha rovistato nella sua società, che ha pagato il prezzo dei suoi amori, di tutti, compreso quello per la scrittura.
Sibilla è moderna. Straordinariamente moderna.
Una donna, il suo esordio narrativo, è del 1906. Eppure, leggendolo, si ha la sensazione che la Aleramo ci parli "oggi", che il suo tempo (quello personale, non quello della Storia) coincida, come in uno degli incanti proustiani, con il tempo attuale.
Sì, è come una madeleine, leggere Sibilla.
Se ne esce arricchiti.
Con qualche malinconia in più, ma anche con la misura imponderabile della profondità di chi non si tira indietro davanti alla vista – spesso implacabile – delle sue contraddizioni.
"Nell’ambito di una campagna per aumentare l’efficienza e diminuire il disordine negli uffici, il governo di Tony Blair ha stabilito che gli impiegati pubblici dovranno segnare con strisce di nastro adesivo nero il punto esatto in cui sistemare il computer, il mouse, il telefono e perfino un paio di biro sulla scrivania".
La notizia compare sulla Repubblica del 6 gennaio.
Già, pare proprio che dopo l’invio delle truppe in Iraq le fregole militari si rivolgano ora alle postazioni lavorative "di casa".
Avanti, marsch. Ripulire gli uffici dal disordine, circoscrivere "i luoghi del delitto" con il nastro adesivo, a segnalare l’omicidio dell’individualità, buttare via ogni effetto-affetto personale. Sì, perché prendono il volo le fotografie del fidanzatino che strizza l’occhio alle ore, del pupetto col biberon o del gatto paffuto. Tutto deve essere asettico, come la corsia di un ospedale. Disinfettato, ordinato, omologato. Il resto è "distrazione", dicono.
Per ora l’esperimento è stato introdotto solo negli uffici della National Insurance, la società di assicurazione pubblica, e in alcune sedi del fisco e della dogana. Ma se l’operazione avrà successo, il governo minaccia di estenderla ovunque.
British è sempre sinonimo di stravagante, da sempre.
Ma noi preferiamo il kitch dei suk multiformi di Soho, o degli sciroccati che ciancolano in cima ai loro palchetti nelle radure di Hyde Park. Questa trovata non è stravagante. E’ solo imbecille.
Per anni la City ci aveva abituato ai doppiopetti glamour e ai mocassini con calze bianche; poi, ultimamente, il voltafaccia: tutti "casual" in ufficio, via il tailleur, spazio ai jeans e camicia.
E poi no, non funzionava, la gente ne abusava (e ti credo, dopo essere stata strangolata nelle cravatte per anni). E allora ecco, torniamo all’eleganza.
Ora l’instancabile Inghilterra ci propone un nuovo intervento che stavolta "colpisce" non il lavoratore bensì la sua "casa".
Sarà perché sulla scrivania della sottoscritta pare sempre sia stata appena sganciata una bomba atomica, ma la segnalazione dei territori e l’epurazione dei segni "personali" sa tanto di colcoz russo. O di Sturmtruppen hitleriane, intendiamoci.
Tra l’altro, questa scelta rovina anni di sudore del marketing americano tutto dedicato alle human resources, al clima aziendale perfetto, con l’asilo nido dove i bambini fanno "Oooh", la palestrina per correre durante la pausa-NonPranzo, i poster con gli slogan a effetto su cui campeggia la storia del leone e della gazzella, oppure le varianti cromatiche della parola Successo (Su-cesso, vien da pensare a volte). E poi la filodiffusione, l’aia condizionata, il feng-shui…
No, adesso arrivano quei "ruompiscatòlli inglesi" – direbbe Stanlio, e impongono lo stile Gestapo.
Il povero lavoratore non ne può più. Prima in cravatta, poi sportivo (a quando le ciabatte?) o con la divisa; l’era del "fai da te" sulla scrivania e in seguito quella dell’Arbeit macht man Frei…Difficile districarsi fra tante mode.
Solo una domanda. Ma se per caso salta fuori una foto-tessera di uno nostro parente che fanno? Ci cacciano?
E se invece superiamo la striscia di Gaza dello schotch che perimetra il nostro computer che succede? Ci arrestano?
E se per caso il mouse dovesse rimanere incagliato fra i due territori?
Chiediamo l’intervento dell’Onu?
Fantastica, l’ultima trovata degli americani. Alcune biblioteche made in Usa hanno infatti deciso di monitorare i libri meno richiesti…per disfarsene.
Buffo, di solito in biblioteca si va proprio a consultare quei libri che di solito non troviamo altrove.
E tuttavia il marketing americano non riesce a non posare la sua longa manus perfino sui luoghi che, per loro stessa natura, dovrebbero vivere anche senza il tintinnio dorato dello scontrino.
E poi quali sarebbero i libri meno richiesti? Quelli che abbiamo tutti? Cioè la Bibbia?
Oppure i long sellers? I best sellers? Ma come distinguere?
E perché una biblioteca dovrebbe rifiutare di tenere almeno una copia di un libro? Perchè non è trendy, non "tira"?
O perché al contrario, se un volumo non è richiesto perché tutti lo abbiamo, per impedire all’unico sfigato che ne è sprovvisto di leggerlo gratis?
Mah. Misteri d’America.
E dire che lì di spazi ne hanno, altro che il nostro costipato stivale.
Le biblioteche potrebbero godere di aree immense.
Come immenso è tutto, in America, dalla circonferenza delle persone a quella dei meloni, dai cartelloni pubblicitari ai truck giganteschi che circolano su altrettanto sterminate autostrade.
Nel paese della taglia XL spalmata ovunque, un po’ come la Nivea dopo un’ubriacatura di sole, non si capisce perché gli spazi delle biblioteche debbano subire questa mutilazione.
I testi meno popolari banditi dalle librerie pubbliche. In questo caso, dovremmo anche sequestrare le biografie di Bush dai vari bookstore metropolitani, visto il collasso dell’indice di gradimento…
Scherzi a parte, questa notizia fa parte di quelle stranezze che attraversano un paese capace di unire intelligenza e ottusità come in una Cesar Salade appena fatta.
Peraltro il controllo commerciale sul catalogo spetta solo agli editori, come sappiamo. Un caso su tutti, l’episodio che vede protagonista la Random House in cui il nuovo manager-editore, acquistata la storica Penguin, sparò sul mucchio cancellando opere interessanti che finirono nel sottosuolo (Editoria senza editori, André Schiffrin), passando in rassegna le opere come se si trattasse di scegliere fra un Mastro Lindo o un Viakal.
Insomma, commercio-commercio-commercio. D’accordo, benissimo.
Ma non possiamo salvare almeno le biblioteche?
Mio nonno, quando ero ragazzina, oltre ad aver messo su la prima libreria della nostra cittadella sul mare era anche direttore della biblioteca comunale.
Ricordo con quanto rispetto e pazienza catalogava (allora si faceva con la matitina e il quadernone) i volumi, li rimetteva a posto, dava consigli.
Forse è "per colpa sua" che mi sono presa una cotta per la lettura tanto da tradurla in mestiere.
Certo è che che fa male ricordare tante attenzioni e poi leggere su un quotidiano di questa genialissima idea.
Molto "americana", ripeto.
A volte, per quanto ami molte cose di quel paese nel quale ho anche vissuto, l’America sembra davvero il luogo delle im-possibilità…
Mi ricordo all’improvviso di quando ero bambino e vedevo, come non posso vedere oggi, il mattino che sfavillava sulla città. Essa allora non sfavillava per me, ma per la vita, perché io allora, non essendo cosciente, ero la vita.
Vedevo il mattino e sentivo allegria; oggi vedo il mattino e sento allegria e divento triste.
Il bambino è rimasto, ma è ammutolito.
Vedo come vedevo, ma dietro agli occhi mi vedo mentre vedo; e questo basta a oscurarmi il sole e a far diventare vecchio il verde degli alberi e a fare appassire i fiori prima che fioriscano.
(Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine)
Sì. La sensibilità dolorosa di Pessoa, pensatore impietoso, profondo, che osserva la Sfinge della vita senza evadere l’eterna domanda, ci regala – in questo libro straziante ma imprescindibile – riflessioni sulla necessità di esistere malgrado i nostri rifiuti.
E la sua penna, che vola sulle ali di un Mercurio sottilissimo, speciale, atterra nella radura dell’infanzia, intercettando il brulicare della vita prima che la vita stessa si separi, staccandosi dall’uomo come fa la donna che rimane a fissare, in una stazione, quel finestrino del treno in partenza la cui progressiva velocità sfuma e scompone i tratti del volto amato, d’ora in poi vivo solo nella memoria ebbra delle congiunzioni carnali.
Quando siamo piccoli facciamo l’amore con l’esistenza. Siamo amanti implacabili, ineffabili, che non si sforzano di catturare perché già sono, non hanno bisogno di possedere trattenendo con sforzo il mondo per paura che fugga via.
Una volta adulti, ci trasciniamo dietro il ricordo di quando il mondo era, e non sembrava.
Lo appoggiamo sul nostro carretto, un po’ come fa la Morte nel Settimo Sigillo di Bergman, fino al giorno in cui non sarà restituito alle stelle.
Non c’è solo il gaio fanciullo celebrato da Pascoli, accanto a lui vive anche il fanciullo sul quale la malinconia scende come neve in primavera.
La neve è l’ingresso della separazione del soggetto dall’oggetto, l’allontanamento da quel mondo primitivo di fusioni in cui i confini ancora non hanno tracciato i nostri "Stati" interiori, da quella primavera del mondo che in sé unisce ogni cosa.
Il bambino è rimasto, ma è ammutolito.
Ogni volta che ci osserviamo osservare qualcosa, la bocca di quel bambino cerca di bisbigliare un segreto che tanto tempo fa conoscevamo.
Ritrovare quel tempo significherebbe tornare alle aurore di cui eravamo essenza e colore.