Scoprimmo (a notte alta questa scoperta è inevitabile) che gli specchi hanno qualcosa di mostruoso. Bioy Casares ricordò allora che uno degli eresiarchi di Uqbar aveva giudicato che gli specchi, e la copula, sono abominevoli, poiché moltiplicano il numero degli uomini. 
Jorge Luis Borges
 
 
“Specchio specchio delle mie brame”, diceva la Regina di Biancaneve, la Neve Bianca, pura, non contaminata dalle passioni.
Quelle che, invece, animavano la Regina, simbolo dell’ombra, del potere, dei vizi che contraggono la nostra tensione verso la virtù.
 
E lo specchio?
Lo specchio è l’elemento magico, la porta verso altre dimensioni, oppure, se non si effettua il passaggio, la superficie nella quale rimbalziamo, e che ci rimanda, invertita, la nostra immagine.
 
Narciso si specchia nell’acqua e si innamora. La Regina si specchia e si adombra. Noi, ogni giorno, ci specchiamo e cerchiamo conferme, o disattese, sull’immagine attraverso la quale ci porgiamo al mondo.
 
Ma quale mondo? Quale immagine?
 
Specchiarsi è un rito celebrato da sempre, dall’alba del tempo, dalla prima notte di stelle.
E se la donna incarna la voluttà del piacere riflesso, della bellezza fissata su quella superficie che però, appunto, è solo una superficie. E dentro, e dietro, che c’è?
C’è Alice con le sue meraviglie. Ci sono i demoni e i fantasmi.
Le streghe e gli orchi. Ma lì, in un angolo, vibra anche la luce per le stelle, la porta per paradisi lontani di cui quelli terrestri sono solo omologia, riflesso.
 
Specchiarsi è importante. Lo facciamo ogni giorno, al bagno, quando ci svegliamo. Osserviamo il nostro volto, ne accompagniamo, con lo sguardo, la rete che il tempo tesse vicino alla bocca, negli occhi, fra le sopracciglia. Ci compiacciamo della bellezza, o ci rattristiamo per ciò che riteniamo poco aggraziato, poco avvenente, poco piacevole.
 
E’ il primo gesto del  mattino.
Cerchiamo noi stessi. Reduci dall’impalpabile mondo notturno attraversato dai sogni, abbiamo bisogno di ricordarci chi siamo. Anzi, chi sembriamo.
Già, perché non è detto che siano sempre la stessa persona. Non è detto affatto.

Quando ero ragazzina, usavo lo specchio come una streghilla incosciente.
Cercavo altri volti che man mano affioravano, ci giocavo, li facevo scomparire e riapparire. Li sovrapponevo. 
Scherzavo con un "fuoco" magico di cui non avevo nessuna consapevolezza.
Più avanti, studiando il simbolismo dei miti, avrei capito – con un brivido – la portata della soglia sulla quale mi trastullavo.

Si può passare oltre. E non tornare indietro. Prigionieri in mondi arcani che stanno…un poì più in là, rispetto alla materia. 

Ma anche qui, anche nel nostro mondo che sempre diviene, lo specchio è indispensabile. Ostacolo e mezzo, gradino e inciampo.

 
Ci serve, lo specchio. Ci aiuta a conoscerci.  Ma è una conoscenza riflessa; dovremmo invece andare “dentro”, penetrare l’immagine per cercare la sostanza, l’essenza dell’essere irreducibile che vive dentro di noi, quello che non viene scalfito dal tempo, quello sostenuto dai fili argentati dell’anima.
 
 
Ma ri-flettere è anche maturare consapevolezze, piegarsi al di là delle apparenze.

Lo sanno bene quei fortunati,rarissimi amanti che hanno avuto la ventura di specchiarsi uno nell'altro, di sconfinare, di perdersi in un tempo senza tempo.
Hanno sentito la loro potenza amplificarsi, rimbalzare, fondersi. Diventare dono, fontana e fuoco.
Negli occhi di chi amiamo possiamo trovare la porta.
Non a caso si dice che gli occhi siano lo specchio dell'anima.
Lo sono, lo sono eccome.
Sono ingressi pern il giardino delle meraviglie.

Ma, come in ogni magia che si rispetti, l'errore diventa fatale. E allora lo specchio si rompe per sempre.
Lo cercheremo in altri occhi, in altri specchi, in altre porte che però rimarranno sbarrate senza la forza di quelle particolari corrispondenze.
E anche questa, se dolorosa, è conoscenza. 

Come quando, da piccoli, impariamo la separazione dallo specchio materno. Impariamo a contare i nostri confini, li misuriamo con le nostre piccole dita, saggiamo la distanza fra noi e lei. Una distanza che ci spaventa, sembra incolmabile, sembra aprire abissi che inghiottono il nostro bisogno di cose finite, di destini sincroni, uniti per sempre.
Invece quei destini si separeranno, avranno futuri diversi, e diverse narrazioni. 

Da piccoli impariamo il gioco degli specchi.

Un neonato è una piccola Luna, acqua pura, incontaminata, sulla cui superficie ogni evento si imprime come un'icrespatura. 
I suoi occhi vivono nei grandi occhi materni attraverso i quali tutto riflettono e assorbono, come una spugna. 
E' in quegli occhi che impara sé stesso. E' lì che apprende l'arte della corrispondenza, della sintonia.

 
Ci sono specchi ovunque, al di fuori di noi.
Persone, cose e situazioni ci dicono di noi e del nostro mondo.
Non è sempre piacevole, certo. Quando le immagini parlano delle nostre ombre, dei nostri irrisolti limiti, vorremmo infrangere quegli specchi, mandare in pezzi le impronte sparse della nostra ignoranza.
Invece dobbiamo pulire, lucidare.
Sempre.
 
Il mondo è uno specchio a volte pietoso, altre inclemente. Ma ci aiuta a sapere chi siamo.
Negli altri incrociamo le nostre fragilità, la nostra forza, la realtà di ciò che siamo il sogno di ciò che forse non saremo mai.
 
 
Già, l’uso dello specchio è fondamentale.
Ma mentre lo specchio “fisico” è semplice da gestire, nello specchio del mondo ci si perde come in una foresta: i suoi intrecci confondo, smarriscono, deviano, dilatano.
Ci vogliono saggezza e discernimento, in questo caso.
 
L’immagine può sanare o avvelenare, dipende dall’uso che ne facciamo.
Come Narciso, affoghiamo nell’innamoramento che increspa la superficie delle cose, oppure andiamo più avanti, giù, immersi profondamente nella nostra coscienza.
 
Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?
La più bella, anche se dolorosa, è sempre la verità.

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Il lavoro creativo è sospeso fra la memoria e l’oblio
Jorge Luis Borges

Ho tre amori, tre passioni letterarie che fanno della memoria un punto cruciale. Nella mia vita di lettrice randagia, disordinata, che annusava nell’aria un autore e lo rincorreva tradendo i precedenti legami, ho sempre mantenuto, negli anni, il fuoco di queste passioni che man mano si è fatto brace, brace eterna. Brillano sempre, un po’ come i lumini in una chiesa.
Chi sono, questi amanti perenni? Sono Borges, Levi e Proust. Inutile, adesso, dilungarsi sui motivi delle loro meraviglie, ma sul tema della memoria hanno spazzato via ogni altro candidato, seppur nobile. 

Tutti e tre hanno un rapporto diverso con la memoria.
Proust ne fa la sua ricerca. Estasi e assillo, per lui. Una ricerca “sacra”, in cui il consueto svolgersi del tempo rettilineo, da ieri a oggi verso domani, finisce per assumere una forma circolare, extratemporale, in cui la memoria diventa grimaldello analogico, apertura di un recuperato senso di sé e del mondo che sconfina in uno spazio assente e allo stesso tempo presente, in quella vertigine extratemporale in cui passato e presente si fondono, danzando in un cerchio al di là di ogni umana linea retta.
Per Borges invece la memoria è un luogo ambiguo, come ambigue sono molte situazioni di questa realtà (come gli specchi, ad esempio, “che attraverso la copula moltiplicano l’uomo”). Per lui è il luogo che definisce la colpa e il rimorso; rappresenta anche  le radici dell’albero che siamo diventati, radici che sono ingombranti, talvolta amico talvolta nemico, come sapevano bene anche gli antichi greci, con Mnemosine. La memoria aiuta, la memoria opprime.

Il povero Funes  viene schiacciato da una memoria invadente, aggressiva, in cui è minacciato dal ricordo di ogni dettaglio che vive, da sempre e fino alla sua morte. Mi fa pensare un po’ alla nostra situazione contemporanea, con gli tsunami quotidiani delle nuove tecnologie e dei mass media che senza sosta propinano informazioni, le sganciano dalle loro bombe, in continuazione, senza pietà. Infestati dal “sapere”, forse un giorno capiremo di non capire niente. E sapremo di non sapere, tornando a una socratica e ben più profonda coscienza. Siamo schiacciati, come il povero Funes, anche se noi, noi riusciamo benissimo a dimenticare cosa non ci fa comodo. In questo caso, la memoria diventa invece necessaria. Anche se è stata trasformata in un qualcosa di retorico: “manteniamo la memoria storica”, “senza memoria non c’è futuro”, “per non dimenticare” ecc. in un bla bla mediatico pieno di parole ma privo di reale coinvolgimento. La retorica della memoria diventa così oggetto di banalità, di ciarle narcisiste in cui ognuno, dal politico all’”intellettuale” (ce ne sono, oggi?) mette in vetrina il suo ego. La nostra non è una società eco-comparibile, ma è certamente ego-compatibile. E ne fa le spese anche il giusto uso della memoria, agitata qua e là come un povero polipo su uno scoglio. "Memoria sì, memoria no", canterebbe il sarcastico Elio nelle sue Storie Tese.

 Del resto, siamo abituati a cose che scivolano via, come sabbia fra le dita. Non facciamo in tempo a fermarci per ricordare che subito sopravanzo altre richieste, altre pressioni professionali, sociali, mediatiche…Con la stessa rapidità con cui in Facebook rispondiamo al famoso “Che pensi?” e subito i nostri commenti vengono invasi dal gruppo di amici e conoscenti che a loro volta intervengono. Non c’è spazio per l’uso sapiente della memoria. In Se questo è un uomo Primo Levi si interroga seriamente sugli orrori che la storia sta consegnando all’umanità, e forse lo sa, sa già che alcuni elementi stanno “come d’autunno sugli alberi le foglie” malgrado il tentativo di fissarne per sempre l’esperienza attraverso la memoria scritta. Ma con la memoria uno dei problemi è proprio questo: o ci si fissa troppo su questa, perdendo la lucidità del nuovo, della trasformazione, dell’occasione che viviamo ogni giorno, oppure la si lascia morire, tornare oblio. 

In fondo, il presente è esattamente ciò che sta tra passato e futuro, ciò che si regge fra memoria e ignoto. “Il lavoro creativo è sospeso tra la memoria e l’oblio”. Esattamente. È ora, in questo istante, tra conosciuto e sconosciuto, tra ciò che è stato e non è più, in attesa di ciò che deve invece ancora accadere, che si moltiplicano le possibilità di una vita intensa, profonda, consapevole. Soprattutto consapevole. Del resto, il ricordo di noi può essere illusorio, fugace come la rugiada al mattino. 
Ciò che ricordiamo non è sempre ciò che abbiamo davvero vissuto, lo sapevano bene gli antichi greci e lo sapeva bene anche Freud, che ci ha insegnato le trappole della proiezione e del falso mondo che spesso creiamo e vediamo. Dunque la memoria può essere inganno, ostacolo, pietra d’inciampo. Ancora una volta, tutto dipende dall’uso che ne facciamo. E l’uso, individuale e collettivo, è spesso fragile, traballante, parziale. Come se per non dimenticare…finissimo invece per dimenticare tutto. Come se a volte dimenticassimo ciò che va ricordato e ricordassimo ciò che va dimenticato. Perfetto. 

Sappiamo bene come lo stesso ricordo, appeso nei nostri pensieri, diventa colmo degli addobbi che pazientemente gli mettiamo addosso negli anni. Lucine, palle di Natale, angioletti che illuminano le azioni più brutte, i vissuti più dolorosi. 
Davvero una maga, in questo caso, la memoria. Abracadabra. Ecco trasformati gli eventi. Bidibibodibibu. Ciò che era bello diventa bruttino, ciò che era brutto diventa bello. L’intollerabile si trasforma nel tollerabile (e viceversa), il sapido in insipido (sempre,anche qui, e viceversa).

I ricordi hanno un limite, oltre il quale diventano un peso che impedisce ogni passo in avanti. La vita non è fissità. La vita è mobile, dinamica, si colora come le foglie d’autunno e po si trasforma, incessantemente. Non lo facciamo forse anche con i rircordi, come abbiamo appena detto?

Ma alcune memorie restano ancorate negli abissi dell’inconscio, in quel mondo grottesco e incantato, terribile e meraviglioso, in cui, come diceva anche Hillman, ogni evento interiore è presente. Laggiù, in quel sottosuolo arcano, il tempo non passa mai.  Il presente è l’unico tempo che l’inconscio conosce. Lui non fa differenza tra un trauma accaduto vent’anni prima e l’oggi che stiao vivendoo pensando di vivere). Non si tratta del presente di cui parlano saggi e uomini spirituali. È diversa la sua qualità. Nell’inconscio le ombre ricordano continuamente, è memoria e non libertà di essere in un vero presente. 

Certo è che se avessimo una memoria che trattiene tutto, lucidamente, razionalmente, saremmo nei guai.

Ricordando tutto, di fatto Funes finisce per esplodere. La memoria selettiva è necessaria però deve essere sapiente, e fatica a farlo. Dimostrazione lampante, appunto, l’inconscio, che trafuga ricordi e li seppellisce clandestinamente, ricordi che poi diventano le ombre e i fantasmi rimossi che ci perseguitano nostro malgrado, impedendoci di essere liberi e soprattutto interi. 

Adoro i guazzabugli notturni dei sogni, che mescolano memoria e fantasia, realtà e licenze, desideri e paure. Sono molto più liberi di noi, non oppressi dai carcerieri che usiamo invece di giorno.
Ricordare può essere bello o mostruoso, la memoria è un oggetto strano, complesso, mobile come un caleidoscopio.
Perché oltre a ricordare dobbiamo conoscere l’essenza del nostro ricordo, della memoria.
Essenza che è spesso alterata, ingannata da ciò che la mente vi depone in seguito.
E si finisce per passare a certi estremi, certe radicalità che mostrano, nella loro iperbole, qualche inciampo nel coretto uso della memoria, come nel caso degli ebrei – sempre legati all’Olocausto che spesso finisce per giustificare ogni pretesa in una sorta di “assoluzione dovuta”, e di quello del branco di folli, ultimo, in tempi recenti, un certo professore universitario, che ribalta il concetto negando addirittura la realtà di quello scempio. Ecco che la memoria può diventare un totem intoccabile di cui ci si fa troppo scudo, a volte, o una polvere che copre ogni evento. 

In mezzo, c’è la saggezza. C’è il conservare il passato sapendo che il mondo dei mutamenti ci porta ogni giorno anche nuovi confini, nuove realtà, ci bagna in acque che non appartengono mai allo stesso fiume. Come un equilibrista sul filo, dovremmo camminare con attenzione tra memoria e futuro, tra ciò che sono stati i mattoni delle nostre credenze e la possibilità di costruire nuove abitazioni, tra il noto e l’ignoto. Tra ciò che eravamo e ciò che saremo. In mezzo, il presente. Ed è così difficile, abitare questo presente. Ci chiede di essere liberi. E noi, liberi davvero, non lo siamo mai.

 

online il nuovo numero di silmarillon!

 

 On-line il nuovo numero di Silmarillon

Il dossier di questo numero: 

La mia libreria

Viaggio intorno alle nostre librerie. Come sono fatte? Come scegliamo di organizzare i nostri libri? Quali sono i libri che amiamo di più?
Da quelle tradizionali a quelle on-line, come Anobii, le librerie raccontano di noi.

Perché non siamo solo que llo che mangiamo.
Siamo anche quello che leggiamo.

Un caro saluto a tutti.
E buone letture.

 

 

 

La città per chi passa senza entrarci è una, e un’altra per chi ne è preso e non ne esce; una è la città in cui si arriva la prima volta, un’altra quella che si lascia per non tornare; ognuna merita un nome diverso; forse di Irene ho già parlato sotto altri nomi; forse non ho parlato che di Irene. L’altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà.

(Italo Calvino, Le città invisibili)

Ogni città pulsa di vita propria. È storia, racconto di luoghi e persone. Labirinto di voci e di strade che parlano di cose antiche e moderne.
Le città hanno un carattere, una personalità. Ti affascinano o ti respingono. Ricordo ancora – ricorderò per sempre – l’emozione vibrante davanti a una Los Angeles notturna, tanti anni fa, che stendeva il suo tappeto scintillante di luci verso l’aereo che preparava la sua discesa. Ricordo la distesa immensa, il luccichio che già raccontava di spazi enormi, molto diversi da quelli a cui ero abituata in Italia. Fissavo la città degli angeli dal finestrino e anche io mi sentivo un po’ come loro, un po’ come gli angeli che ogni giorno bisbigliano osservando dall’alto la vita delle metropoli, sopra il cielo di tutte le Berlino del mondo. 

Da lassù uomini e cose si mescolano e si rincorrono. A volte un po’ senza senso. Come quando ogni mattina all’improvviso le strade diventano ricettacoli di macchine imbottigliate nel traffico, tutti a pigiare a gridare a correre verso gli uffici. Lo stesso rituale inverso la sera, al rientro dalle faccende del giorno, quelle che ti costringono negli uffici o in giro per appuntamenti.
Le città si somigliano molto nelle pause pranzo, con i lavoratori sparpagliati come ragazzini in festa rincorsi dal tempo: i più sfortunati, quelli che il tempo afferrerà per primi scagliandoli di nuovo nelle stanzette dei loro uffici, sbocconcellano in fretta un panino rubando minuti al loro dovere, altri invece, quelli che appartengono alla casta dei privilegiati, si avventurano nei ristoranti, menu fisso 10 euro, per ritagliarsi la loro oretta di chiacchiere e cibo.
Sulle strade delle città gli operai, seduti sugli scalini, consumano il loro pasto di sandwich e birra. I ragazzini invece si danno tutti appuntamento ai Mc Donald, orribile omologazione che lega Barcellona a Hong Kong, Buenos Aires a Dublino. Eccolo, uno dei simboli della globalizzazione che vorrebbe fare di ogni città un omogeneizzato. 

E invece l’anima delle città resiste, si nasconde – furtiva – nei vicoli, scende in strada nelle ore deserte per gustarsi i dettagli che altrimenti scompaiono, ingoiati dal traffico.

Nascondono una moltitudine di storie, le città.
Storie che si affacciano alle finestre, brulicano nelle strade, si intersecano e poi tornano a essere parallele, procedono vicine, una accanto all’altra, senza unirsi mai più.
Di queste storie è tessuta ogni geografia urbana. Ognuna con la sua anima particolare, irripetibile.

Quando studiavo a Milano, ricordo che a Piazza Duomo, sulla quale sbucavo ogni giorno dopo i sotterranei della metropolitana, respiravo la fretta, l’urgenza, il procedere alla rinfusa di tutti. Tutti correvano, correvo anch’io. Acceleravo il passo senza un perché.
Il tempo, a Milano, è davvero denaro.

Più tardi conobbi invece i languori di Roma, la città che fermò le mie migrazioni, che mise una frontiera davanti alle inquietudini dei miei spostamenti.
Roma è un suk assolato. È un caos ciarliero – a volte magari un po’ cafone – però ti trascina, ti seduce, ti vince.
E’ meraviglia, è estetica dei luoghi e gaiezza delle persone.
A Roma volentieri rimani. È una città che si dà da fare per adottarti, incantandoti con la sua versatilità che unisce sacro e profano.
Come sono diverse, Roma e Milano.
Due modi di essere, di vivere, di sentire le cose del mondo.
Non è vero che le città sono tutte uguali, malgrado le pretese della globalizzazione.
Per fortuna le città sono tutte diverse. Come le persone che abitano.
Al di là dei facili stereotipi che puzzano di macchietta umoristica, davvero il nord e il sud sono abitati da modi differenti, davvero narrano di diverse interpretazioni del mondo.

Di Napoli, la città che incanta i sensi e li smarrisce in un vortice senza ritorno, magico luogo dove si incrociano l’Acqua e il Fuoco, la liquidità dell’emozione e la fiamma dell’ardore creativo, la Femmina e il Maschio dei nostri archetipi antichi, di Napoli, dicevo, conservo sempre un ricordo speciale che poggia sulla memoria di passeggiate senza meta, di estasi e rapimenti in cui danzavano architetture e persone, di canoni inversi in cui gli orientamenti si scambiano il posto.
E ricordo un pranzo in famiglia, uno di quei pranzi meridionali in cui si sfianca il tempo a forza di restare lì, seduti intorno alla tavola apparecchiata con risate e affetti, circondata da persone che radunano storie, aneddoti, pettegolezzi. Che si scambiano idee. Si parla, si parla sul serio mentre il cibo stordisce i sensi ma alllo stesso tempo ravviva la lingua.

Così diversa, Napoli, da una città come Torino. Una piena di problemi eppure spensierata; l’altra ordinata, pulita, ma un po’ freddina. Un’anima più riservata, quella di Torino, meno propensa alle dispersioni, alle ubriacature dei sensi. Della città piemontese ricordo soprattutto la bellezza dei vecchi palazzi, con i tetti nordici su cui, come tanti occhi, vegliano le finestrelle degli abbaini.

I racconti di città hanno un’anima tutta loro, irripetibile.
“La città vive in me come un poema che non m’è riuscito di fissare in parole”, scrive Borges in una poesia. E altrove aggiunge: “Ormai le strade di Buenos Aires sono le viscere dell’anima mia”.

Perché davvero fra ogni città e i suoi abitanti si stabilisce una muta corrispondenza, un patto speciale.
Il ventre di Roma, Tokyo o Berlino nasconde sempre i segreti della sua gente. Segreti penetrabili solo a investigazioni accorte, lontane dalle pappe precotte per i turisti, lontane da ogni Mc Donald e ogni Coca Cola che solo in apparenza rendono il mondo tutto uguale.

Racconti di città e racconti di paese si differenziano per quantità e qualità.
Io sono nata in provincia, a Senigallia, nelle terre marchigiane che sanno di buona campagna e di mare. Anche Senigallia ha i suoi racconti. A me stavano stretti. Io ero una cacciatrice di storie.
Volevo mescolare il fiato a respiri più grandi, girare in quartieri capaci di annullare l’identità regalando momenti di straordinario anonimato (quell’anonimato che però in altre situazioni diventa pesante, terribilmente pesante), nuotare nelle esperienze di altri, in un confronto dialettico da alternare all’isolamento. Volevo perdere lo sguardo nelle distese di tetti e di antenne, infilarmi in spazi nuovi attraversati da una moltitudine di abitanti.

Di tutte le città visitate e vissute conservo le storie nella mente e nel cuore.
Ma ancora oggi fra tutte brilla il ricordo di quella Los Angeles notturna che mi aspettava con le sue promesse di spazi enormi ed di genti lontane. Avrei vissuto a san Diego, a un’ora da lì, per un anno. Dunque c’era in me anche la trepidazione per una sosta diversa dalle solite gite turistiche.

Quelle luci accese nella notte – lassù, dall’aereo – mi entrarono nella pelle.
Ancora oggi, se chiudo gli occhi, sento di nuovo quella sensazione.
E mi emoziono.

 

 

 

Online il nuovo numero di Silmarillon. Un grazie di cuore ai blogger che hanno partecipato con i loro contributi. Una rivista indipendente e gratuita per sopravvivere ha bisogno di testa e cuore. E, ancora una volta, ce l’abbiamo fatta…

 

 

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Del resto, il mulino di Amleto e Silmarillon interagiscono nei contenuti e sono davvero fratelli.

ll dossier di questo numero prosegue il viaggio intorno alle scritture contemporanee.


Interviste a:
Dacia Maraini

Veronica Raimo

Matteo B.Bianchi

Stefano Bory

Gianni Romoli

Roberto Carvelli

Stavolta la videointervista riguarda il mondo dell’editing:
Daniela D’Angelo parla del mestiere dell’editor


Buona lettura!