Visita anche: Editoria e Scrittura | La stanza di Virginia | Silmarillon | Stylos | La mia Istanbul
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Ieri sera mi sono vista The Passion, film (che avevo già visto) molto dibattutto e controverso. Ma, al di là di ogni giudizio di sorta, rimane il fascino di un intero film recitato in aramaico e latino, lingue che trasportano in un tempo lontano, tessuto di storia sacra e "profana". E rimane il fascino di un Satana restituito in maniera suggestiva, molto suggestiva. Nè uomo né donna, diafano e seducente, cantore del male. Celebratore del serpente (la cui coda si intravede di sfuggita guizzare nella sua narice destra in un primo piano rapido ma incisivo) che diviode, separa l’uomo dall’Unità.
Splendide, alcune figure, al di là della discussione sull’opportunità, nel film, di compiacersi troppo dell’"uomo Cristo" flagellato e crocifisso con insistente dovizia di particolari (c’è chi l’ha amato, chi l’ha trovato fuori luogo).
Ripeto, a me non interessa ora nè il giudizio "telogico" nè morale né cinematografico.
Mi interessano i dettagli che mi hanno colpito.
Come, appunto, la figura di Satana. Che a suo modo tenta, seduce, incarna l’orlo dell’ombra sul quale tutti passiamo, quel crinale che ci segue, sia a livello psichico che spirituale, e che rappresenta l’eterna tentazione del Male.
E mi vengono in mente le ombre. Tutte le ombre. Le mie e quelle del mondo. C’è un piccolo Satana dentro ognuno di noi, e ognuno può dargli la valenza che vuole, sia questa umana o spirituale. Ci sono debite differenze, ma qui, adesso, parlo dell’ombra che ci assale e che non vogliamo vedere, che ci fa arrendere nei nostri deserti, o ci guida, fiera, rendendoci ignari della sua strategia. Grandi e piccole ombre, su questa terra.
E se il male non esercitasse un fascino forse, forse saremmo più liberi. Ma ce l’ha. L’ombra è invitante, assume forme pregevole, promette poteri.
Ci visita quando meno ce lo aspettiamo, si nasconde dietro le nostre colonne, invade il tempio della nostra esistenza.
E il suo esistere non smette di interrogare l’uomo, da sempre e per sempre.
Per quanto mi riguarda, cerco solo di fare un po’ di luce. Quando posso. Per quanto posso.
Non sto scrivendo molto ultimamente. Lo so. Ci sono periodi strani, nella vita, in cui ci si annida in sé stessi per osservare. Osservare quello che succede, quello che non succede, chi abbiamo intorno e chi invece manca all’appello. E si contano le guerre, i feriti, le vittorie e le tregue.
Si pensa al passato mentre il futuro poggia i gomiti sul davanzale davanti alla finestra che ancora non c’è, aperta su interrogazioni mai risolte.
E a volte, in questi periodi strani, la mia scrittura si fa piccola piccola, invisibile. Aspetta, scruta, sonnecchia, si stira, si ricompone. Non è che non sappia che dire. Solo, non vuole. Forse per pudore, per rispetto di quei vuoti che prima o poi finiamo per accogliere. E un vuoto, si sa, per essere vuoto non va riempito.
Non sono sempre negativi, i vuoti. Se non altro, perché hanno la possibilità di nuovi ingressi e riempimenti. Molti, in questi momenti, scrivono tantissimo, quasi la scrittura li salvasse dal confronto con sé; va benissimo. A me invece capita di rinunciare alle parole, perché bastano quelle che ronzano in testa.
E così, il Mulino ha taciuto per un po’. Ha rallentato. Ma un blog è un po’ come la vita: piena di salite, curve e piazze per le soste. Lui mi somiglia. Come certi cani, che assumono i tratti dei padroni. O certe case, che riflettono ogni umore dichiarato o sospeso.
Comunque, questa piccola pausa serve a una nuova partenza. E’ come un pit- stop, per verificare le ruote, l’olio e il motore.
Ma di sicuro cominciano a mancarmi, le parole scritte. Ed è allora, quando il richiamo si fa più forte, che a loro torno.
Accadde inaspettatamente.
Credevo di aver ormai perdonato tutto a mia madre.
Fu all’inaugurazione di una mostra: una conoscente mi chiese perché tutte le mie sculture raffiguranti corpi femminili sembravano erose, scavate da dentro. "Anche quando il vuoto non si vede – disse – quasi lo si avverte, immediatamente sotto la pelle di marmo", benché in marmo ne avessi scolpita solo qualcuna, per di più di piccolo formato. Tendevo a evitarlo, il mio materiale è il legno".
(Slavenka Drakulic, Pelle di marmo)
Pelle di marmo è un romanzo che fa male. Racconta del triangolo del desiderio fra una figlia, una madre e il suo compagno.
Ma la narrazione va oltre: scava nei recessi dell’anima per tirare fuori il nodo del femminile, quello del rapporto madre-figlia che, quando non funziona, genera mostri e fantasmi.
"La madre è la pietra d’inciampo di ogni donna", scrisse una volta la psicanalista Anna Salvo.
E questa pietra d’inciampo nel romanzo si fa marmo, distanza, freddezza.
Finché la figlia non avrà raggiunto e superato sua madre, non potrà mai esistere per davvero. Esisterà solo nel dolore, negli spettri della memoria, nella non compiutezza di un quotidiano esasperante.
Se la madre è quella che ci salva, è anche quella che ci danna. Per questo la mater terribilis presente in ogni tradizione antica aveva la valenza distruttiva, umbratile, che si affiancava a quella clemente, radiosa, rassicurante.
Per ogni Maria c’è anche una Lilith.
Fare i conti con la "pelle di marmo" sulla quale è scivolata una infantile richiesta d’amore può essere molto difficile.
Perchè il marmo non accoglie, non coccola, non avvolge. Le manine incontrano il ghiaccio mentre desiderano invece una radura gremita di margherite assolate.
Così quelle mani, una volta adulte, scolpiscono la ferita e le danno forma, corpo, perimetro.
Mentre in realtà non c’è perimetro, né frontiera, che contenga questo dolore arcaico insediato nell’anima.
A volte i romanzi possono essere impietosi, crudeli. Ma raccontano pezzi di realtà.
Questa storia raduna tutte quelle bambine che hanno toccato, tremanti, la perfezione fredda della pelle di marmo.
E, foss’anche per un solo istante, le libera.
Sarà, ma ogni volta che vedo le pubblicità del tonno Nostromo mi viene una crisi allergica.
Specie durante quella in cui lui si pappa il tonno dicendo, fra uno gnam gnam e l’altro "E’ tua suocera" a quel popò di tonno spilugone in piedi (anzi, in pinne) sulla porta della baracchetta. Tra l’altro, non so perchè ma ogni volta quel tonno mi fa pensare a Pinocchio, quello di Comencini.
Comunque, in questa pubblicità, sarcasmo oblige.
Ma a me non piace. Trovo il tutto di cattivo gusto. Cattivissimo. Non fa ridere. Non fa "piangere". Insomma, si rimane come…baccalà.
Il sarcasmo, l’ironia, sono armi che chiedono di essere manovrate dall’intelligenza. Altrimenti risultano insipide, come un tonno senz’ olio (per rimanere in tema).
E se qualcuno obiettasse dicendo che è la fine che fanno sul serio, quei tonni, e che è più onesto raccontarli così che farli somigliare ai grissini, rispondo che allora preferisco le cruente pubblicità che ho trovato in Sicilia, con l’immagine del povero tonno, sbigottito e agonizzante, che viene sollevato dalla rete in cui è stato trafitto durante il rito macellaio della mattanza.
Beh, a dire il vero, preferirei, alla fine, sognare. E immaginare che il buonissimo tonno sott’olio sia nato così, senza pinne nè occhietti nè vita precedente, pronto nella sua culla di latta. Che in realtà è una tomba. E in realtà, occhi pinne e sangue c’erano. E c ‘era anche la mattanza, che ci piaccia o no.
La pesca al tonno è davvero cruenta. Ma quantomeno è più "vera" di questa pubblicità grottesca.
E comunque, una suocera sott’olio la vorremmo tutti. La vorremmo lì, mangiata da un anonimo marinaro scorbutico, che la faccia sparire in clandestinità. Piano piano, senza che se ne accorga nessuno. Un po’ come succede ai defunti cinesi.
Tutti all’ovile. Eccoci qua, belli impacchettati per l’anno. In fondo Settembre è il vero "Capodanno" per molti, il tempo dei nuovi inizi. Inizi di dieta, palestra, corsi, progetti professionali…
Li decidiamo immersi nelle nostre città, colorate dagli ultimi bagliori della tintarella, fra un clacson e uno svogliato rientro.
Tornare in prigione è duro. Forse è per questo che ci affanniamo nei citati "nuovi inizi". Per dimenticare la cattività dopo l’assaggio libero della vacanze.
I primi giorni ci aggiriamo inquieti, come anime sparpagliate, per riannodare i fili della routine.
C’è invece chi, tutto contento, si reinserisce nella jungla cittadina: durante le feste ha sentito la mancanza della frenesia lavorativa.
Non è il mio caso.
Io adoro il vuoto delle giornate, da riempire con il riposo, i libri, le passeggiate.
Buon rientro a tutti.