Mi rendo conto che scrivo pochissimo, sul mio povero blog.
Sono sempre in viaggio, frenetica, spossata, felicemente creativa ma creativamente…felice?
Chissà. La scrittura mi manca. E’ l’appuntamento con me, lo spazio bianco che diventa parola, sospensione dell’attività, ricordo di sé.
Ci pensavo oggi, in questa domenica di primavera in cui i ricordi sopiti si svegliano, cercano la punta del cielo, aprono i petali di un impossibile oblio.
La primavera porta cose vecchie e nuove, desideri e torsioni dell’anima.
E’ bello, incantarsi, dondolarsi, oscillare.
E così, così penso alla mia amica, la scrittura. Amica a volte vicina, a volte lontana ma che tuttavia, come ogni primavera, allunga la luce del giorno e ritorna, sempre.

Viaggio tutte le settimane, in treno. E ogni volta, alla stazione di Falconara Marittima, in attesa della coincidenza, devo sciropparmi le cazoni diffuse dagli altoparlanti recentemente installati.
L’ultima “violenza” alle mie povere orecchie. La stazione dà sul mare, lo sguardo insegue le onde fino alla curva in cui muore il Monte Conero, che sprofonda nell’acqua deponendo a terra la città di Ancona. Di sera, nell’attesa, è bello guardare le luci che interrompono il buio. Peccato che, da qualche tempo, una orribile stazione radio funesti me e gli altri viaggiatori con il suo chiacchiericcio ininterrotto.
Non basta più la musica nei bar, nei ristoranti, nei supermercati…Adesso perfino all’aperto, alla stazione.
Mi sento aggredita. Sono stanca, stanca di questo mondo invadente che viola i silenzi, li teme come la peste, invadendo, strisciante, tutte le porzioni lasciate libere da aumobili, voci, rumori di ogni tipo.
Siamo la “lounge society”, la società (presunta) fica in cui l’ascolto di musiche varie è “cool”, di dà un senso metropolitano, globalizzato (sì, la globalizzazione della demenza).
Ci lobotomizzano, questi “rumori” imposti che annulano i pochi silenzi superstiti. Sono una forma raffinata e moderna dell’elettroshock. E così, anestetizzati e tranquilli (in realtà sempre più nevrotici) ci inquiniamo con note e voci che magari neanche ci appartengono, ma che subiamo, come ogni cosa ormai, dall’ennesimo scandalo politico allo sgarbo mentre fai la fila al mercato, con indefessa indifferenza.
Il silenzio fa paura, tormenta la coscienza che non può giocare a rimpiattino con sé stessa, agevolata dagli strilli quotidiani a cui ci sottoponiamo.
Duinque va combattuto, con ogni mezzo. E, si sa, i mezzi suadenti sono i più pericolosi, dato che incantanto…come un serpente.
E invece io vorrei tirargli davvero il collo, a questo serpente-radio che si diffonde e ondeggia nell’etere, insinuandosi nei miei pensieri, aggredendo lo spazio intorno. Spazio aperto, non chiuso.
SE un coglione qualunque nella sua auto vuole ascoltare Vasco Rossi a migliaiai di decibel, è libero di farlo (col finestrino chiuso, ovviamente), se in discoteca una massa di pecore vuole sciropparsi la disco music anni 80, perfetto. Ma invadere anche lo spazio libero, aperto, che appartiene a tutti e nessuno, è una vera intrusione.
Il bello è che non è un sottofondo, anzi. Si impone, arrogante, tutto il giorno.
E penso che la prossima volta tirerò la valigia contro uno di quegli altoparlanti.
E non pagherò i danni.

Pensavo, oggi, a un limone. A un limone specifico, che annusai, qualche anno fa, nella cucina della mia vecchia casa. Quel limone lì, e nessun altro. Aveva il profumo più buono che abbia mia sentito in un limone, la fragranza agrumata ineffabile, la quintessenza della “limonitudine”, direi.
Ma lui non era un limone speciale. Ero io, a essere diversa. Già, perchè “c’ero”. Ero lì, e non altrove. Completamente immersa in quel profumo. Così penetrante e allo stesso tempo sottile, delicato e forte al contempo.
Quel momento si è impresso nella mia memoria per la sua forza, per la sua singolare “presenza”. Da allora ho annusato molti altri limoni, eppure nessuno, nessuno di loro è mai stato paragonabile a quello. Quello era “il” limone. Nel senso che in quel momento avevo colto, per ventura, un istante sottile in cui la realtà vive per quello che è, semplicemente, senza nulla aggiungere o nulla togliere. Le volte successive, alla ricerca di quel momento, ho proiettato l’attesa sul limone, ne ho enfatizzato volutamente l’aroma, insomma ho bluffato, come sempre, o quasi, facciamo nella vita.
E allora non mi resta che ricordare, con dolce malinconia, l’essenza di quell’istante.
La vita è una successione di attimi magici, come quello. Ma non riusciamo a esserci.
Per me quel limone è diventato un po’ come la madeleine: quando ci penso, la memoria apre le porte di uno spazio in cui il tempo si fa vertigine, e suona una partitura dell’anima. E’ diverso da quell’istante, dal momento “del limone”, da quando ero completamente calata nella Realtà, ma è fatto della sua stessa sostanza.
Siamo fatti di piccole cose, per tornare al post precedente. Quando le viviamo è meraviglioso. E, ancora più bello anche se malinconico, è non poterci tornare con la memoria, che apre altri spazi e altre porte. Ma l’istante, l’istante “vero”, non si ripeterà mai. Per fortuna.

So che prima scrivevo molto di più, in questo spazio. E ogni giorno mi riprometto di riprendere l’antica passo, quello che mi faceva scrivere uno due post a settimana.
Mi manca, la mia casa virtuale. Mi mancano gli amici del blog.
E spero di riuscire a mantenerla, questa promessa.
E’ che corro, corro una matta lavorando in due città, divisa fra tre scrivanie e sei computer. Una schizofrenia che pago, ovviamente, anche se adoro il lavoro creativo che faccio.
E mi rendo conto che oggi, oggi il vero lusso è il tempo. Quel tempo che rincorriamo, disperati. Quel tempo che manca sempre, che ci fa fare mille cose, sfiniti, per poi ritrovarci quasi a non aver vissuto.
La nostra è una società furba, molto furba: ci ha convinto che è fico correre, è fico essere multitasking e fare più cose insieme.
E invece no, siamo solo coglioni.
Già. Poveri idioti abbindolati dalle luci di Maya.
Correre ti fa perdere le cose, non te le fa gustare, assaporare. Sei sempre in ritardo rispetto a un programma, sempre preso. E quell’adrenalina, ti fanno credere, è una cosa davvero “in”. Invece sei solo un nevrotico imbottito di ansia “multifare”. e Corri, corri senz apiù il tempo. Il tempo per te.
Andare veloci non è fico. E’ tristissimo. Non si assimila nulla, non si assapora ciò che si fa.
Anche il lavoro va in qualche modo gustato, altrimenti come fa a nobilitare l’uomo?
Ci sentiamo nobili e invece siamo solo sfigati, oggi.
Me ne rendo conto. E la sera, ogni sera, quando tolto le scarpe e mi appoggio sfinita sul divano, penso alle cose che NON ho fatto. Le cose piccole, quelle del cuore. Quelle che resteranno al di là delle glorie professionali che, come sabbia al vento, ti scivolano via, sempre.
Il lusso, oggi, è il tempo. Quel tempo che la società moderna ci ha sottratto, lo ha rubato ai nostri affetti, alle nostre abitudini lente, alle nostre ricerche e ai nostri interessi.
Ecco, spero di farcela, a recuperare questa pregiata lentezza. E a scrivere di più anche qui, in questo posto che amo e che negli anni ha seguito le mie alterne vicende, le riflessioni che ho accumulato, gli amici che qui ho incontrato.
Dovremmo rallentare tutti, anche se “fuori” continuano a chiedere, a pretendere, a fare fare fare.
Essere, essere è così bello. Accidenti, quanto è bello.

 

Il successo professionale ci lusinga, ci seduce, ci attira. Certo, è un bel doping per la personalità. Un ottimo vestito per l’autostima. Come no.
Sono reduce da un glorioso appuntamento con un personaggio importante del settore in cui lavoro.
Eppure….Eppure penso – sarà il Natale – alle cose che contano davvero. E non sono certamente le collezioni di glorie professionali che, sicuro, ci fanno bene, ma in cui troppo spesso, un po’ come Dorian Grey, ci smarriamo a favore di un’apparenza. Il lavoro è importante, per carità. Ma, specie quando si frequentano ambienti di lusso, diventa anche un ostacolo per la ricerca delle piccole cose, invisibili eppure potentissime. Piccole cose che pulsano di vita, bramano un’attesa che non fa notizia ma che diventa sostanza, ardore quieto, gioia dell’attimo.
Sono le faccende piccole piccole, come un sorriso casuale per strada, lo fiorarsi di due mani che si stanno cercando ancora, il coraggio del fiore di gelsomino che sfida il gelo e sta lì, a raccontare come la vita sia piena, sempre e comunque.
Cronache minute, piccole come gli ossicini di un passero. Ma non per questo fragili.
In fondo, corriamo sempre dietro ai “grandi eventi”, sognando successi, traguardi, storie a lieto fine mentre la vita si svolge…accanto. Ci passa vicino, e magari non la notiamo neppure, troppo presi da egoiche divagazioni sul tema. Quale tema? Il nostro Ego, l’Immagine a cui vogliamo assomigliare, la Figura Nostra magnifica e…progressiva.
E così ci accade si correre vicino a lavori, matrimoni, e perfino “imprese” spirituali, senza notare il vento che muove la foglia facendola vibrare di un racconto unico, tutto per noi. Un racconto che è Vita. Semplice, piccola, muta. Frastornata da tanto strillare, tanto inseguire, tanto afferrare. Ogni giorno porta con sé la gioia delle piccole cose, basta saperle guardare.
E troppo spesso, troppo spesso ce ne dimentichiamo.
Qualche giorno fa, la neve romana sollevò il naso di tutti. Ecco, sì, allora dovrebbe “nevicare” ogni giorno. Piccoli fiocchi bianchi sulla nostra miopia, ad accendere di stupore uno sguardo altrimenti distratto.
E se guardiamo indietro, se lo facciamo con onestà, dovremmo riconoscere la potenza di questi piccoli attimi, spesso mancati, che hanno dotato sostanza alla nostra vita. Sostanza e presenza. Non occorre scalare vette, costruire imperi o fare famiglie ristrette o allargate. Basta, a volte, accorgersi. Notare quel poco che c’è, ma c’è sul serio. E in quel “poco” ritroviamo il “tanto” che abbiamo invano cercato. Allora gli occhi si allargano di meraviglia e gratitudine, e l’anima si distende, senza corse e rincorse.
Piccoli momenti strategici che sono legati a persone, piante, animali, momenti del giorno o della notte in cui è sufficiente guardarsi attorno per dilatarsi senza divenire porosi.
Sono questi, gli attimi invisibili, piccoli, che non fanno la Storia ma ne costituiscono la ragione stessa di essere.
Dovremmo solo imparare a esserci, quando ci sono loro.
E allora anche un colore fiammingo nel cielo, il timbro di una voce conosciuta, la giusta alchimia di sapori nel piatto che abbiamo appena cucita diventano “momenti di essere”. Momenti di essere. Non sembrare: essere.