Visita anche: Editoria e Scrittura | La stanza di Virginia | Silmarillon | Stylos | La mia Istanbul
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Un anno fulmineo – uno sfarzo – una lacrima
lo svegliarsi un mattino
per scoprire che ciò per cui ci si sveglia,
inala un’alba diversa.
(Emily Dickinson)
Non mi va di scrivere altro perché quando “parla” la sensibilità della Dickinson ogni altra parola sembra un orpello gratuito.
Succede che anche se vai fuori per lavoro, puoi sempre trovare il modo di vedere una città. Puoi evitare di ridurla a una serie di abbuffate nei ristoranti e dormite in albergo.
A me è successo. E' successo a Parigi.
Organizzata bene la mia fuga dalla Fiera, mollate le persone allo stand, ho raggiunto il centro e…mi sono persa.
Sì. Mi sono persa nelle strade di un novembre parigino, con il suo cielo grigio e piovoso (chi mi conosce sa che amo la pioggia), le sue architetture straordinarie, i bistrot., gli alberi spogli… Mi sono mangiata una crepe alla cioccolata mentre volutamente ignoravo ogni direzione. Sì, perchè se ti dai una meta allora non si assapori bene una città. Devi invece perderti per trovare lei, dimenticare mappe e tappe, lasciarti guidare dallo zingaro che è in te e che sa, conosce la non direzione in cui tutto compare. Così, conosci una città. E Parigi è davvero la Città.
Di notte, le sue luci sfavillanti celebrano esattamente quella "festa mobile" di cui scriveva Hemingway. A confronto, Roma sembra illuminata, nelle sue serate notturne, da lampadine di 40 watt.
Parigi no. Lei illumina le facce e i palazzi, gareggia con le stelle, muove il suo respiro invisibile nei bistrot, si infila nello spazio sacro della verticalità gotica, ascolta le chiacchiere infinite allungate nel tempo sospeso di un bistrot. La notte, a Parigi, brulica di luci e colori. E tutti fuori, sparpagliati nei caffé, a ignorare il freddo coprendolo con le voci, con i sorrisi, con le bevande fumanti. Ripenso a Sartre, a Simone de Beauvoir, a tutti gli intellettuali che dei caffé facevano il mondo. Noi, noi invece abbiamo recluso nei salotti la nostra cultura, l'abbiamo asfissiata con i vezzi del dotto, ne abbiamo fatto oggetto di vanto e non di scambio. Respiro l'aria dei caffé mentre immagino quelle voci lontane che volevano cambiare il mondo, che si interrogavano, parlavano, passavano ore seduti girovagando su tutto, consapevoli che l'intellettuale vero è quello che si sporca le mani, come diceva Pasolini. E che discute, che non fa del suo universo l'unica certezza di vita.
E li rivedo tutti, i miei amori passati. In quelle atmosfere parigine vedo Balzac passare in carrozza, e sento la meraviglia di Proust davanti a una nuvola in corsa. E Flaubert, e Victor Hugo. E tutti, tutti coloro che ho amato sono lì, accanto a me, nella mia passeggiata in cui il giorno diventa notte. Fermenti, sospiri di una città "vera", lontana dal provincialismo che attanaglia le nostre presunte metropoli che, ahimé, della metropoli hanno il caos ma non l'essenza di quell'umore sottile che come un vento qui passa ovunque e allarga i confini.
A noi manca quel respiro internazionale, quella brezza dilatata che soffia sulle cose e che, almeno per me, conta tanto.
E mentre cammino per ore mi accompagna la sensazione di essere a casa. Qui mi sento a casa. Mi riconosco.
E la sensazione culmina nella Sainte Chapelle. Non voglio descriverla perchè le parole sarebbero un gesto superfluo. E'. Semplicemente.
Dico solo che la bellezza mi ha trafitto come una lancia e che ho pianto. E che ho sentito un richiamo antico, che attraversava il tempo.
Un istante, ed era già volato via.
Avrei voluto restare lì per sempre, ma il tempo è tornato, mi ha chiamato, mi ha riportato al lavoro che avevo abbandonato.
Eppure ce l'ho fatta. Ce l'ho fatta a regalarmi un pezzo di libertà. A incontrare, anche se per poco, l'anima di una città che si è impressa nel cuore. Mi sono ricordata di quando, tanti anni fa, ci avevo trascorso la gita di scuola. Ricordi smozzicati che riaffioravano. Come quando davanti a Notre Dame mi ero commossa. Intendiamoci, mi sono commossa anche stavolta, Notre Dame è Notre Dame, per carità. Ma è la sainte Chapelle che mi ha rubato il cuore.
Per sempre.
Poche cose mi piacciono come l'autunno. Sul serio. Molti di noi si immalinconiscono, tardano con la mente al pensiero delle perdute gioie estive. Non io. Forse sto diventando un'anima crepuscolare, ma ai colori aggressivi dell'estate preferisco quelli caldi di un autunno che colora ogni cosa con i suoi rossi meravigliosi, impareggiabili.
Non c'è artista in grado di metterli su tela con la stessa intensità, con gli stessi accostamenti cromatici che, sempre, mi stupiscono.
Guardo le viti che si arrampicano suoi muretti dando nuova vita a quelle pietre, cammino su foglie ammassate come su una nuvola in terra, osservo il cielo che spesso si tinge di azzurri e di grigi che finiscono per compenetrarsi scortati dalle ali degli uccelli in volo. Com'è monotono, il cielo, d'estate. Con quel blu così raramente soccorso dai bagliori lattuginosi di qualche nuvola che lo attraversa. D'autunno, quando non piove, i colori diventano più capricciosi, e quel capriccio mi piace.
Insomma, l'autunno mi regala sospiri di serenità. E sì. forse anche di malinconia. ma una malinconia sana, beata, dolce e tiepida come i primi maglioni di lana.
E' una natura incerta come incerto è il nostro vivere. In ogni foglia che cade vedo il mutamento che preclude a ogni rinnovamento.
Le mie piante, in terrazzo, stanno vivendo questa stagione in modo diverso a seconda della loro peculiare natura. Alcune, come le rose, si svestono completamente, altre invece sfoggiano mescolanze ardite di rossi e di verdi.
Altre ancora resistono, e accettano un sole pallido che si nasconde presto dietro ogni notte.
E io sto bene, in mezzo a loro, a guardare i contrasti del cielo prima che si spenga per accendere la sera.
E guardo lontano, verso le colline.
Penso a paesaggi che mi aspettano in quei viaggi in treno che in questo periodo sono così numerosi.
Le colline e i boschi, feriti dalla ferrovia, mi saluteranno con il loro autunno più bello.
E io, io starò lì a guardare.
Nel giorno dei morti, io penso anche ai vivi che stanno morendo…
Non ho voglia di scrivere altro perché questa foto non chiede parole. Chiede solo di guardare, e di pensare.
CARI AMICI SCUSATE LE FORZATE ASSENZE, VI HO SCRITTO QUALCHE RIGA DI RINGRAZIAMENTO NEL VECCHIO POST. MA CI SONO, APPENA POSSO CI SONO, E VI PENSO CON TANTO AFFETTO…
Popper la chiamava cattiva televisione". Già. Purtroppo la famosa sera di Chi l’ha visto stavo guardando anche io, per caso, quel programma. Non l’avrei fatto, se non fosse per mia madre che, per motivi a me arcani, segue da sempre quella trasmissione.
Ma l’ho fatto, è capitato, l’ho visto. Ho visto te, SS, Sciacallo Sciarelli, dare il peggio di te. Ho visto qualcosa che non avrei mai voluto vedere. Non sono bastate le tragedie di Vermicino, le interviste morbose a Erica e Omar, le telecamere fisse su Cogne…Il grande, indimenticato Billy Wilder nel suo “L’Asso nella manica” ci aveva avvisato, tanti anni fa, sull’uso cinico del giornalismo. Ma noi, come sempre, abbiamo superato ogni immaginazione.
Cara Sciarelli, “stare sulla notizia” non significa stare sulla faccia di una madre a cui hanno ammazzato la figlia per poter essere lì quando glielo diranno, salvo poi, praticamente, dirglielo tu.
Io c’ero, Sciarelli. Ed è stata imbarazzante la tua difesa, il giorno dopo, in cui dicevi che avevi più volte invitato la signora Concetta ad andarsene. Cazzate. Lo hai fatto quando la tua aria da colombella afflitta aveva già mostrato gli artigli del falco. Artigli che hanno graffiato quel momento, quell’ansia, quello sconcerto. E lei, Concetta, stava lì, frastornata, con quella faccia apparentemente impassibile sulla quale le telecamere passavano e ripassavano per catturare qualche reazione. Una lacrima, magari. Quello che ci piace così tanto in tv. E tu, Sciarelli, eri come in preda a un orgasmo dopo decenni di frigidità. I tuoi occhietti impazzivano, a correre tra lo schermo che mostrava quella che era ormai la sindone del volto di Concetta e gli assistenti di sala con l’ultima Ansa.
Ma che fai? Interrompi! Falla andare via! Mi dicevo. Ma tu nulla. Eri “partita”. Parlavi alla signora Concetta di cadavere, quello di sua figlia, e di ricerche, di presunti ritrovamenti…
Solo a un certo punto le hai chiesto se voleva interrompere. Ma quel punto è arrivato tardi, troppo tardi. Lo squallore era già tutto compiuto. E lei, con una voce flebile, una voce sospesa nel vuoto di una speranza ormai impossibile, ti ha detto “Sì è meglio” Con un tono sbrigativo, nervoso. Spero che quel tono e quella frase ti tornino in mente per molto tempo. E spero ti venga in mente quella faccia violata dalle luci di uno studio invadente. Poteva andarsene la madre, hanno detto alcuni. Beh, sai che ho pensato io? Che eri tu a doverla proteggere. E tu, e io, e molti altri sappiamo benissimo che ogni trauma comporta reazioni diverse, a volte anche non reazioni. E sappiamo anche che “LA TELEVISIONE” per le anime più “ingenue”, meno colte, meno sofisticate, è davvero una specie di Golem, o un Totem, un qualcosa di così potente da essere intoccabile, qualcosa che non si sa come gestire mentre tu, cara, sai benissimo come farlo. Tu eri quella che doveva interrompere il collegamento. Potevi benissimo andare avanti da sola, tanto eri la primadonna della serata, tutti, tutti a usare comunque il tuo programma come riferimento. Hai perfino suggerito che l’inviata rimanesse nella casa dello zio orco con i due amici della figlia dell’orco, mentre la madre e l’avvocato dove sarebbero dovuti andare almeno un’ora prima. Sì, a far che? A prendere un tè coi pasticcini e fare una partita di briscola? Andiamo, Sciarelli, vergognati.
Quando hai capito che non c’era speranza, che tutti avrebbero dovuto lasciare la casa interrompendo il collegamento, il tuo disappunto, per il brivido di un momento malcelato, mi è sembrato davvero penoso.
Beh, comunque ci sei riuscita, sei riuscita a dire alla madre che cercavano il cadavere di Sara per le campagne.
Brava, complimenti. Portevi benissimo “stare sulla notizia” senza fare del becchinaggio. Potevi informare a tempo record, gestire i flussi di agenzie, i tempi giornalistici. Non con la madre, però. La madre meritava di venirlo a sapere in un altro modo. Un modo che molti di noi, fortunati, non hanno vissuto ma che molti altri purtroppo conoscono.
Parlo di quella scena che di solito vediamo nei film, con gli uomini in divisa che suonano alla tua porta. E tu sei lì, davanti all’irreparabile. Ma sei a casa tua, non sei in uno studio televisivo. E puoi sempre sederti, piangere, svenire. Urlare. Chiedere, ricevere conforto e notizie.
Ma non lo vieni a sapere da una giornalista demente, così, fra un cameraman e una luce, fra una tizia con un microfono in mano e tua nipote che piange e non vuole mostrarsi scappando dagli inviti ripetuti della giornalista demente. No, non così.
Questa non è televisione, Sciarelli. E non è neanche “cattiva televisione”. E’ solo vergogna.
Una volta esisteva il buon giornalismo. Chi l’ha visto?