Live fast, recita la nuova pubblicità della Diesel.

E voilà, ecco la foto di una neo mamma postmoderna in corsa, che spruzza velocemente un po’ di talco sul culetto del suo bambino.

Mah.

Sarà perché penso che la cultura della fretta sia proprio quello che ci sta imbarbarendo, ma questa foto mi ha impressionato negativamente. Molto negativamente.

Non si tratta di fare del bieco tradizionalismo, ma di applicare un po’ di buon senso e mettersi nei panni (anzi, nei pannoloni) di quel povero pargoletto sballottato qua e là, alle prese con la sua nevrastenica mamma. Perché andare di corsa – mi spiace – non è un bel vivere. Proprio no.

Ma siamo nell’era dei Tutto intorno a te, dei Connecting people, dei Fastweb, delle comunicazioni globali in tempi reali.

Perché la mamma dovrebbe dunque salvarsi? Giusto.

Peccato che questa vita moderna – celebrata anche dalla Diesel-  produca milioni di ipersterssati che fanno le fortune di psicologi, centri benessere, maghetti e apprendisti stregoni.

La fretta non è una virtù. Fretta significa superficialità, pressapochismo, incapacità di fissare quello che stiamo facendo.

Ma proseguiamo, proseguiamo nella magnificazione di questo falso mito.

E così anche le mamme adesso corrono con i loro bei pantaloni Diesel.

Il tempo rilassato del contatto con il bambino è scaduto, come uno yogurt conservato troppo a lungo nel frigorifero.

Ripeto: mah.

Dovremmo recuperare quel tempo prezioso che fa di noi degli esseri umani, e non degli automi efficienti efficaci produttivi organizzati.

Ma la neomamma che non ha tempo può consolarsi: archiviate le corse quotidiane, la sera può rilassarsi davanti al televisore, magari scegliendo fra Cogne di Vespa e la Rosa Bazzi di Matrix.

Cosa vuole di più dalla vita? Un Lucano.

 

Lavoro con le parole da tanti anni. A volte, quindi, mi "fisso" un po’ su alcune combinazioni che disapprovo. Considerazioni personali, magari, ma che comunque attingono a una certa coerenza nell’evidenziarne  l’inefficacia.

Sarà perchè la nostra lingua è così bella, così ricca di varianti infinite e di magiche combinazioni da scoprire nell’attimo dello stupore, quando fermiano i soliti percorsi mentali.

Ecco, quindi, una piccola lista – personale, ripeto – di parole abusate o male accoppiate tra loro:

Le prime luci dell’alba

(le prime luci dell’alba sono…l’alba stessa)

Nell’occhio del ciclone

(in realtà l’occhio del ciclone è l’unica zona ferma e tranquilla)

Ti dico la sincera verità

(una verità è già sincera)

Una rara eccezione

(avete mai sentito parlare di un’eccezione comune?)

E ora veniamo agli automatismi, quei modi di scrivere che azioniamo proprio come un pilota automatico e che diventano luoghi comuni ormai troppo abusati:

un silenzio assordante

un esordio fulminante

Un film indimenticabile

Si legge con il fiato sospeso

Una storia soprendente

Una persona bella dentro

E via scrivendo. Oggi, putroppo, parliamo tutti per slogan, dimenticando le acrobazie che le parole, se liberate, sono in grado di compiere.

Personalmente, sono arrivata alla saturazione con "Il silenzio assordante" che mi perseguita ovunque, sui libri e sui giornali. Coraggio, cerchiamo altri modi, altre metafore.

Già, la metafora. Anche lei omologata, ormai, come la Coca Cola. A partire dal famoso cuore d’oro che spunta ovunque.

Sono solo alcuni piccoli esempi, se ne possono trovare moltissimi.

Mi piace sempre ricordare una frase di un racconto di Borges che mi folgorò per la speciale combinazione delle parole:

"Passeggiavo per le strade di Buenos Aires in una serenissima vacanza della mente".

Una frase semplicissima e allo stesso tempo unica. Borges, come Calvino ma pure Màrquez e tanti altri scintillanti autori, era capace di impreziosire la prosa con la meraviglia dell’accostamento inusuale, senza renderla barocca a forza di prolungati virtuosismi e aggettivazioni infinite.

Ma Borges era Borges.

Noi, però, possiamo provare, ogni giorno, a sottrarre le nostre parole alla piattezza espressiva e soprattutto ai luoghi comuni cui le abbiamo abituate.

E loro, libere, sapranno incontrarsi in modi meravigliosi.

 p.s. gli errori ortografici più comuni sono invece: pò, qual’è, accellerazione. Peccato trovarli spesso anche sui giornali…La dice lunga sull’ozio mentale.

ONLINE IL NUOVO NUMERO DI SILMARILLON. SI PARLA DELLE PAROLE SUI BLOG.

 

 

Ma quale vita da cani? E, più in generale, da gatti, conigli, perfino furetti?

L’industria per gli amici a quattro zampe non conosce crisi. Forse perché sostituiscono i figli in un paese dalla crescita natale a tasso zero, o forse perché i danni del consumismo si sono estesi ai quadrupedi che vivono imbalsamati nelle nostre case.

Le cifre sono davvero…"bestiali". Ne parla Ettore Livini in un articolo pubblicato ieri su Repubblica, in cui raduna cifre da capogiro per le spese di cibo, toelettatura, dog sitting (a proposito, ora è comparsa la figura del dog runner, il personal trainer che negli Stati Uniti fa correre i cani obesi per farli dimagrire).

In effetti, è una vergogna.

In più, i padroni si fanno fregare come fessi. Perchè, per esempio, gli sfiziosi pasti scodellati su vaschette elegantissime, e propinati con sofisticati nomi di alta gastronomia (straccettini profumati al pomodorino fresco, paté di salmone, mousse suprème alla carotina balsamica, ecc), sono esattamente come i decaduti, semplici, antichi bocconi di carne (accompagnati al massimo da un po’ di riso), ormai in disuso.

Già, basta guardare la pubblicità di questi cibi che somiglia sempre più a quelle delle automobili o dei profumi, in cui il prodotto sta dietro le quinte facendo parlare i "valori" della raffinatezza, del benessere, dell’eleganza…Ce n’è una in cui gatto e padrona (lei vestita come se invece di dare la pappa al suo micio stia partecipando alla cerimonia degli Oscar) si aggirano in un giardino da reggia di Versailles, tra musiche sfumate e scenari di sogno…

Invece della scodella, un piattino a cui manca solo coltello e forchetta (tra poco, vedrete, risolveremo anche questo dettaglio).

Ma i cretini sono i padroni. Loro, gli animali, sembrano ammiccare, quando fa comodo, o rassegnarsi, quando le attenzioni diventano scomode.

E a volte non si rassegnano mica tanto bene, a dire il vero. Come quando ho dovuto portare Leila, la mia gatta, a fare la toeletta. Prima e ultima volta, lo giuro. Ma lei ha il pelo lungo (forse è un incrocio con qualche persiano, non so, l’hanno trovata in una colonia e me l’hanno portata) e siccome non mi andava di spazzolarla tutti i santi giorni, a un certo punto mi sono ritrovata un gatto rasta. Sì, perché era piena di trucioli. Le mancava la canna in bocca per sembrare la fotocopia pelosa di Bob Marley.

Così l’ho portata, di malavoglia, a fare la toelettatura, lasciandola lì un po’ perplessa. Ma da sola quei trucioloni non ero proprio riuscita a levarli. Dopo mezz’ora me la sono ripresa. Aveva graffiato a sangue il povero addetto a lavaggio e spazzolatura. E, detto fra noi, la capisco. Lui me l’ha riconsegnata con un dolente sorriso, mentre il proprietario mi ha invitata a portarla lì ogni mese.

Scherziamo?

Leila odorava di tintoria. Sì, sembrava un capotto lavato a secco. E ripassato col ferro da stiro, tanto i suoi peli erano elettrici. Mi dispiace, ma credo che, per quanto possibile, gli animali debbano restare…animali.

Vivere in casa per loro è già abbastanza. Del resto, delle toelettature, dei pasti alla nouvelle cuisine, delle corse antiobesità, dei tapis roulant e delle palestre a quattro zampe possiamo fare a meno. Con buona pace anche del portafoglio.

Perchè poi li stressiamo, questi animali. E allora vanno dallo psicologo. Conosco personalmente un cane che deve superare, all’età di otto anni, il suo "problema con l’abbandono", come dice il padrone (e io dico: ogni cane, è normale, strilla e abbaia e fa i dispetti se lo lasciamo solo). Così è stato sottoposto a terapia educativa. Lo vedo subito, quando è stato dallo strizzacervelli. E’ timoroso, impaurito, gira con la coda fra le zampe e non ti salta festosamente addosso per darti le leccatine, come fanno tutti i cani del mondo, ma si blocca in modo artificiale e inquietante.

Povero Bruno (si chiama così). Mi fa una pena infinita. E mentre proliferano gli psicologi per animali (mamma mia), a Stoccolma aprono perfino un centro di rilassamento mentale per animali stressati, il Doga Yoga. Yoga for dogs.

E se invece riaprissimo i manicomi per internare i loro padroni?

 

 

E succede che un post diventi meno "poetico" degli altri. Già, perchè la vita non è fatta solo di letteratura, scrittura, lirismo.

La vita è spigolosa. C’è un quotidiano fatto di battaglie. Come quelle che infiammano un libero mercato sempre meno…libero, e sempre più condizionato da una crescente barbarie. 

In questa bella torta, la ciliegina sono le tasse – sempre più alte – e i cambiamenti che hanno reso il precariato più precario che mai.

C’è un popolo, oggi, che fa molta fatica. E’ quello della famosa partita iva, l’incubo di molti, la scrivente compresa. Ma è l’unico modo che consente al libero professionista di lavorare.

In più, se il professionista in questione gestisce un progetto imprenditoriale, si trova davanti a un esercito di persone che rifiutano di aprire la loro partita iva, e vorrebbero il nero. Bellissimo, fantastico. Tu paghi le tasse, loro no.

Certo, la cosa più triste è non poter fare  la  cosa giusta: pagare meno, pagare tutti.

E così, come sempre, ogni giorno davanti a te sfila il felice popolo degli evasori. Nell’ordine (sparso):

idraulici

psicologi

dentisti

pittori e imbianchini

medici vari

eccetera eccetera eccetera

Del resto, il cittadino che deve fare quando si trova davanti, nel caso di una visita medica come privato, la segretaria che ti domanda furbetta

"Vuole la ricevuta oppure no??".

"ma no, si figuri"

e scuci di meno.

E così si avanti, con un popolo diviso, come le acque del Mar Morto durante il passaggio di Mosè, fra chi paga e chi evade.

Il bello è che lo Stato rovista nei posti sbagliati. Chi lavora da libero professionista con altri professionisti e strutture fattura le entrate e le uscite, di solito. Chi invece lavora con i cittadini privati se la spassa evadendo allegramente le tasse ( e ti domandi perchè lo Stato non fruga lì, nelle categorie che tutti, dico tutti, sappiamo).

Insomma, la situazione non è bella per niente.

Ma, come diceva Nanni Moretti, "andiamo avanti così, facciamoci del male"…

 

 

Io non c’ero, quei giorni. Non ero lì. Non ho visto la scuola Diaz ridotta come un "mattatoio messicano", come l’ha definita Fournier questi giorni.

Non c’ero ma ho rivisto, di nuovo, le immagini di quei giorni di guerra.

Mi ha fatto male. Il cuore si è stretto, rimpicciolito fino a diventare un granello di sabbia.

Perché fa sempre male osservare come in fondo nulla cambi mai sul serio.

La violenza, il sangue, le botte. La polizia e gli studenti. Sembrava di essere indietro, nel tempo, in quel tempo non vissuto ma respirato nella pancia di mamma, quando lei distribuiva i volantini all’università finché un giorno non ha smesso per diventare una brava mamma borghese. E poi i libri, le immagini, l’atmosfera delle lotte di classe che accompagnavano i primi passi innocenti di bimba. Perché la televisione c’era. E in casa si parlava. In giro si intercettavano gli umori di piombo.

Da adulta scoprii i libri, i racconti, i documentari. E sperai che qualcosa sarebbe cambiato. Ma le cose non cambiano. Non cambiano mai.

Oggi come allora, abbiamo sempre bisogno di un "buono" e un "cattivo", di un "chiaro" e di uno "scuro". Di una polizia e di un gruppo di manifestanti. E di tanto odio che scorre in mezzo, come uno Stige fuligginoso.

Quei giorni di sole e sangue, nel 2001, c’erano di nuovo tanti ragazzi in guerra.

Vestiti in modo diverso, schierati, come in una partita di scacchi, dalla parte dei jeans e degli zainetti o da quella degli scudi e dei manganelli.

Mi ha fatto male vedere quelle sfilate di sangue rappreso, di occhi pesti, di anime tumefatte in quella bolgia infernale in cui all’improvviso la difesa è diventata aggressione, violenza, stupro collettivo. E’ inutile tentare la via della latitanza, dell’incertezza, della menzogna di corporazione: la polizia ha massacrato un sacco di ragazzi. I nervi sono saltati, si sono sciolti insieme all’asfalto squagliato dal sole. La polizia si è scatenata colpendo alla cieca stuoli di ragazzi e ragazze in cui si mescolava l’anima purulenta, piena di livore di alcuni a quella più ingenua, volenterosa di altri (sebbene io creda che la pace non sia un arcobaleno disegnato su una bandiera ma un non colore appoggiato sulla coscienza). Nessuna sentenza postuma potrà risarcire del tutto quei danni.

Alcuni danni, poi, sono irreparabili. Come il buco nel cuore del signor Giuliani, che ha lo stesso diametro della pallottola che ha ucciso suo figlio.

Altri danni, invece, sono quelli che si misurano lentamente, nella storia, attraverso l’assenza di una redenzione reale malgrado tutti i delitti e castighi di cui siamo colmi dall’antichità.

Non impareremo mai.    

Del resto, mentre le immagini scorrono vedo anche, all’improvviso, gli occhi atterriti di tre giovani poliziotti con la maschera antigas sollevata. Uno di loro ha le labbra che tremano, gli occhi sollevati in alto quasi a cercare una fuga in quel cielo così remoto e sereno, il volto di un biancore lunare.

Impossibile non ripensare alle frasi di Pasolini su Valle Giulia, alla sua strenua, appassionata difesa di quei poliziotti figli di povera gente, spinti a fare la parte dei cattivi per svoltare il lunario mentre loro, i "borghesi" figli di papà, fanno le loro rivoluzioni che segnano le distanze dall’ombra dei genitori.

Io non so se quei poliziotti, a Genova, erano figli di povera gente. E non so se quei ragazzi distribuiti nei cortei lungo le strade erano ragazzini ribelli che giocavano a Robespierre.  Forse era anche così.

Ma so che Pasolini, quella volta, ha comunque scavato una fossa nella superficie intatta dei luoghi comuni. Peccato, ci è finito lui, in una fossa, in un tempo precoce. Ma le sue parole sono rimaste e allora come oggi indicano comunque una via, quella del dubbio, quella di una complessità del reale che sfida le pantofole delle certezze che ci fanno da cuccia.

Questo non solleva il sangue dal mattatoio di Genova, nè attenua l’orribile peso di una polizia che si è comportata come un branco attraversato dal pulsare della follia, proprio come accade ai leoni quando cominciano a vedere il sangue della gazzella, e allora si riuniscono eccitandosi e scavalcandosi per strappare i brandelli di carne. Ma i ragazzi non erano gazzelle. Eppure la carne gliel’hanno strappata. A volte in modo così violento da lasciar scoperte le ossa.  Alcuni erano davvero ragazzini, avevano le loro buone idee e però  avevano avuto la pessima idea di manifestarle quel giorno.

Purtroppo accade anche, ogni volta, che un luogo pubblico diventi l’arena di proiezioni personali e private, in cui il nemico, l’altro, è per forza il cattivo, l’elemento sbagliato.

Così è stato anche a Genova.

E così, se l’evidenza dei fatti fa orrore (e di questa evidenza la polizia, mi auguro, dovrà rendere conto fino alla fine), è anche vero che pure fra i poliziotti ci saranno stati ragazzi con la stessa faccia brufolosa e spaurita, da passero spennato, di quel giovane inquadrato dal primo piano.

C’è una mattanza peggiore di quel mattatoio messicano di cui ha parlato (finalmente) Fournier. E’ quella che riguarda il non voler imparare. Quella che fa del passato solo strumento per le retoriche del ricordo. A che serve la memoria se non a salvare un presente? E invece ci sono, di nuovo, solo i sommersi. I salvati stanno altrove, nei nostri sogni. Il mondo continua così, con il suo schifo e la sua ignoranza.

Ma non riesco più a dividerlo sempre in buoni e cattivi. Non più. Non come prima. Perchè il dubbio, questo tarlo aspro che rosicchia le sicurezze, mi impone sempre, alla fine, un pensiero costante. Penoso da sostenere perché fa vacillare ogni bagliore di quell’assoluto che ovunque andiamo cercando (è rassicurante, l’assoluto).

E allora che paura che fa, giudicare qualcosa. Perché ciò che vedi è forse solo un pezzetto di una realtà complicata, difficile come il labirinto in cui senza il filo di Arianna tutti ci perderemmo. E se il filo fosse rappresentato dal dubbio?

Non so, non ho risposte. La realtà delle cose è così facile e allo stesso tempo così difficile da decifrare.

Forse aveva ragione Socrate. Forse bisogna sapere di non sapere per conoscere davvero qualcosa…