Liberi professionisti. Macché.  Da quando sono una libera professionista sono prigioniera. La chiave della mia cella è stata gettata via insieme ai miei week-end.

A volte guardo i dipendenti. E li invidio.

A che ti serve sapere di poter andare al cinema un martedì pomeriggio se poi all’uscita, se per caso “hai osato”, ti ritrovi una sfilza di telefonate che solo a scorrere la lista di sms che ti è arrivata impieghi lo stesso che servì a Marco Polo per arrivare alla Muraglia Cinese?

A che serve l’idea – solo l’idea, accidenti – di “fare sega” per un giorno intero?

Il fatto è che il lavoro aumenta, la responsabilità getta a terra le ali svagate dei tuoi desideri di ozi e piaceri, di ritagli di tempo tutti per te.

Non ci credevo, una volta. Come tanti ragazzini pensavo, allora, che fare il dipendente fosse “roba da sfigati”.

Sapere di uscire tutti i giorni, dico tutti i santi giorni della tua vita, esattamente alla stessa ora, fare lo stesso percorso, affannarti per timbrare il cartellino (un po’ come quando ogni giorno dovevi consegnare i compiti alla maestra, in fila dietro ai tuoi compagni di classe), clic clic clic, sono puntuale, sono un bravo impiegato, cartellino timbrato…Beh, sapere tutto questo mi metteva angoscia.

 In più i vecchi film di Fantozzi – spietatissimi, crudeli, implacabili –  sui tormenti della vita impiegatizia non aiutavano certo. Magari oggi è meglio, magari oggi le “human resources” e i corsi di filosofia greca nelle aziende hanno “umanizzato” quell’ambiente mostruoso (come mostruosa era la figlia del povero Fantozzi, Cita Haywort), vuoto di umanità e giustizia.

L’epica fantozziana è rimasta impressa nelle nostre memorie.

Sì, certo, oggi le aziende sono diverse. Rimane il fatto che non è bello vivere con  un orologio sopra la testa che, al posto della nuvoletta di pioggia, ti ricorda la tua sfiga in continuazione.

Dicevo, ci credevo, una volta, all’idea del dipendente  tristarello e rinchiuso nella sua triste vita.

Ma non è mica così.

In fondo lui  ha anche le ferie pagate, le tredicesime, le quattordicesime, le ventesime. E, soprattutto, se non è alle dipendenze di un vero stronzo…esce in tempo, la sera, per fare la spesa e magari pure un po’ di palestra. Il week end  nessuno gli rompe le palle per trascinarlo in ufficio.

Il libero professionista, invece, in teoria potrebbe godere della libertà sistemandosi sopra la testa un bel sole che manda in soffitta l’orologio dei condannati.

Ma non è così.

In pratica sta sempre a lavorare. Anche i sabati e le domeniche. Sia che abbia una ditta individuale (allora entra nel girone degli imprenditori, che manco Dante potrebbe spostarlo) o che faccia il consulente con P.I. (Perché Io), la vita non è certo migliore di quella del Fantozzi di turno.

Perché ci ostiniamo a chiamare liberi professionisti quelli che, in realtà, lavorano molto di più rispetto al periodo in cui, magari, erano stati assunti (o comunque avevano goduto di cococò, rococò o bobobò)?

Il libero professionista è fottuto. Non ha garanzie se non quella di una ideale, utopica  libertà con la quale baratta le sue giornate di sessantasei ore.  Fa pensare a quelle cartoline romantiche con la scritta “Saluti da” preparate apposta per il turista coglione.

Allo stesso modo molti  liberi professionisti vivono in un sogno posticcio che naufraga, però, davanti all’evidenza delle giornate.

Non sarebbe meglio chiamarli schiavi professionisti? Sono comunque più fortunati di Fantozzi.

In fondo, Cita Hayworth non è la loro figlia.

 

 

CELENTANO DI SERA BEL TEMPO SI SPERA?

3 dicembre, 2006 (19:14) | idiosincrasie | By: fpacini

 

Finalmente il sogno di Fazio si è avverato. Finalmente ieri sera Celentano ha animato il salotto di Che tempo che fa. Del resto, lo aveva atteso come il Messia, con tanto di countdown che, nelle ultime settimane, veniva recitato come una litania.

Ebbene, Lui è finalmente attivato. Tutti contenti, ci siamo spalmati sulla poltrona per seguire il duetto.

Del resto Celentano è un gigante. Un’icona, un mito.

Solo che la contentezza si è progressivamente smosciata, come un canotto bucato.

Lui, Celentano, è sempre affascinante. Quando canta, quando fa le facce sghembe, quando sta zitto e ti fissa da dietro gli occhiali da sole.

Farà un bordello stavolta? In fondo Rockpolitik ha diviso l’Italia con i suoi tormentoni lenti e rock, con il ritorno di Santoro, con le frecciate a Berlusconi.

E un’intervista dovrebbe essere comunque foriera di affondi e ironie.

E invece no. Forse ci sarebbe voluta la barbarica Daria Bignardi perché Fazio, se possibile, si è fatto più ripetitivo e ossequioso del solito.

E così i due fingono di improvvisare dei siparietti in realtà studiatissimi, artificiosi. Tra esitazioni, finti imbarazzi, pause meditate, il duetto non decolla mai. Non è pirotecnico ma denso di salamelecchi e ipocrisie.

Francamente  se la menano troppo, i due, con la storia dell’essere scomodi, con l’ipotesi di una chiusura del programma dopo il fatidico invito di ieri sera.

Manco fosse venuto Bin Laden.

Perché semmai se c’è uno che rompe le palle ai poteri politici, e che adesso è davvero antitelevisivo, quello semmai è Beppe Grillo.

Tra l’altro le domandine di Fazio non sono per niente appuntite. Scolastiche, inamidate, sono politically correct.

Insomma lente. Per niente rock. Tutt’al più hanno il sapore del liscio.

Ovvia puntatina sulla manifestazione anti-governativa, che si risolve però in due battute "Per cosa hanno dimostrato?" fa Celentano. "Contro la finanziaria". "Allora hanno fatto bene".

Embè? Tutto qui? Acqua tiepida. Dove sono gli incendi annunciati?

Poi si parla di potere, di tv (con qualche battutina leggermente salace, tipo "Siamo a Raitre, non siamo alla Rai, ci vuole un po’ di elasticità), di comuni che insozzano l’umanità con gli inceneritori. Ma il tutto impeccabilmente demagogico.

Non c’è niente da fare. Quando Celentano smette i panni dell’uomo di spettacolo per fare il filosofo da molleggiato diventa sfigato.

Sì perché non gli si addice. E’ spocchioso, moralista. Più bacchettone di quella religione verso cui punta il dito parlando di satira.

Per fortuna quella peste bubbonica della Littizzetto attenua un po’ la imbarazzante marchetta di Fazio (pari solo a quella fatta a Padoa-Schioppa).  Stuzzica il Molleggiato ("Come sei sexy. C’ho le ovaie che fanno la ola"), porta l’acqua, si mette nelle sue solite pose selvagge che stonano meravigliosamente con i deliziosi vestitini che indossa.

Dell’incontro rimane solo la monumentale bravura del "Cele", come lo chiama lei, il suo indiscusso talento ( non un "cretino di talento", come lo ha definito Bocca, ma un "talento rincretinito" perché molla questa abbondanza di doni per ostinarsi a fare il guru televisivo), la sua straordinaria capacità nel creare atmosfere magiche.

Rimane una domanda: tutto qui?

Eppure si poteva fare di meglio. Perché…come fa quella canzone?

E intanto il tempo se ne va…

 

Come funghetti velenosi, negli ultimi dieci anni sono spuntati – pressoché ovunque in Italia – corsi e seminari sulla "scrittura creativa". In futuro si organizzerà forse una facoltà universitaria? Laureato in scrittura creativa…mmh, non suona poi male.

Che significa, però, questa benedetta scrittura "creativa"? Spiegatecelo, illuminate la nostra arretratezza culturale.

Secondo i nostro modesti neuroni, l’atto di scrivere, a voler essere proprio pignoli, è già di per sé creazione, qualunque cosa si scriva, è creazione in quanto si dà forma a qualcosa che prima era inesistente.

Allora, in questo senso, anche la casalinga che fa la lista della spesa scegliendo la pera al posto della mela, o accostando lo zucchero al pangrattato, è in un certo senso creativa. Non è come scrivere un romanzo, va bene, e un vigile che compila una multa non avrà la fantasia di un pubblicitario che inventa uno slogan…ma questo basta forse a giustificare l’espressione "scrittura creativa"?

Si intende, con creativa, la diversità tra l’elencazione e la narrazione, la finzione, fino a qui i nostri quattro neuroni sono arrivati, ma ancora non capiamo perché sia necessario affiggere quell’ozioso supplemento alla parola scrittura. Scrittura e basta.

Scrittura narrativa, semmai. In fondo, la scrittura utilizza la creatività diventando narrazione, alchemica combinazione di parole e concetti. Si possono insegnare forse le tecniche, ma le tecniche non sono "creative".

Sì, sappiamo che Raymond Carver ha scritto un saggio nel cui titolo appare proprio questa espressione, scrittura creativa. Ma dissentiamo lo stesso.

Anche perchè le lezioni di Carver non sono come …le lezioni terribili di molti apprendisti scrittori che "insegnano" a scrivere un romanzo spillando quattrini ai poveri aspiranti narratori. E invece si è molto speculato su questo, abusando il termine, utilizzandolo per pretendere di insegnare…la creatività (anche la scrittura non si insegna, a nostro avviso. Solo il genio di Carver poteva farlo, ma di Carver ne nascono pochi, davvero pochi).

La creatività in fondo si aggira nei sobborghi della fantasia, quella che ha fatto sì che Pessoa, ad esempio, insieme alla registrazione dei quaderni contabili della struttura presso cui lavorava abbia scritto pure libri magnifici come Il libro dell’inquietudine. La creatività,  la fantasia non possono dare frutti senza la dimestichezza con il linguaggio, ovviamente.

Ma la scrittura, l’arte di scrivere appartengono al talento. Che può essere affinato, allenato. Ma non può essere studiato, nè tantomeno appreso.

Non ci sono ricettari magici per diventare scrittori, ad eccezione del consiglio di frequentare buone letture.

Scrittori creativi. Mah…

Se volete scrivere, scrivete. Senza preoccuparvi di fuorvianti e arbitrari suffissi. Con un’avvertenza: evitate la scrittura cretina. Quella sì, esiste davvero.

 

Per fortuna agosto sta finendo. E così se ne vanno anche i tormentoni canori e musicali che affliggono chi in spiaggia vorrebbe rilassarsi, farsi un bagno, prendersi un po’ di sole.

Avevamo cominciato, anni fa, con il purtroppo famoso Vamos a la playa dei fratellini Righeira, scampati evidentemente a una disinfestazione musicale. Solo stati loro gli apripista di tutti i successivi tormentoni estivi. Tanto per citarne alcuni: Chiuaua, la Macarena, Dammi tre parole (sole cuore amore, ahimé). Canzonette che ti appestano le orecchie insinuandosi serpentinamente con le loro rimette facili facili, incalzanti, e che malgrado ogni resistenza e avversione ti fanno ritrovare lì, a canticchiarle come un demente mentre passeggi o fai la doccia. O addirittura mentre cerchi di concentrarti perché stai  facendo qualcosa di importante. E ti perseguitano.

Il fatto è che l’ascolto ossessivo durante la stagione estiva impedisce l’evasione dai tormentoni. Suonati nei baretti sulla spiaggia, strimpellati dai megafoni della Publimare che nell’Adriatico opprime puntualmente, dalle 11.00 alle 11.30 del mattino e dalle 17.00 alle 17.30 del pomeriggio, tutti i santi giorni, i bagnanti, obbligati a sciropparsela sulla spiaggia (perfino se ti allontani a nuoto in acqua continui a sentire la musica e la pubblicità, per cavartela dovresti arrivare in Jugoslavia ma il fiato non basta…).

Del resto l’estate ci vuole tutti un po’ rincoglioniti. Spostadoci dalla musica ai libri, il tormentone "letterario" di quest’anno  è Il Calisutra in cui lo stagionatissimo ma sempre in (s)forma Franco Califano dispensa consigli sulla sua ars amandi. Lui, il vitellone nazionale, eterna incarnazione del folclore romano che mescola burinaggine e filosofia spicciola, vocalizzi nazional-popolari e palpeggiamento di deretani, si gode il successo che, dopo la permanenza nel reality Music Farm, gli ha donato una seconda giovinezza che si gode con la bava alla bocca e le maniglione dell’amore che lo fanno sembrare un palo su cui sono impilati dei copertoni, promuovendo sui litorali il capolavoro della narrativa estiva.

E va bene. Continuiamo così, facciamoci del male, come diceva Moretti con ironia prima di incagliarsi per sempre in sé stesso.

Dunque al mare, tra la lettura del Califfo e le Macarene a squarciagola, è difficile rilassarsi davvero. E chi vuole rilassarsi poi? I bagnini propongono palestre da spiaggia con tanto di trainer e biciclette per fare spinning (a suon di musica lanciata da casse che sonorizzano la spiaggia riducendola a discoteca…e se non c’è la Publimare, ci sono loro).

Anche la fissa per i muscoli diventa così un tormentone.

Eccole lì, le barricadere della palestra, quelle sempre in pirma linea in fatto di fitness, issate sulle loro bici da spinning che corrono e sudano, e sudano e corrono, intubate nelle loro tutine sciogli-cellulite. Certo, devono "gasarsi" per non rendersi conto di quello che in realtà stanno facendo, cioè una fatica boia mentre una sana nuotata le rinfrescherebbe e aiuterebbe comunque i blocchi di grasso, e per gasarsi i rimti musicali che intontiscono e danno la spinta sono necessari, perché però devono devastare tutta la spiaggia con la loro musica a palla? E portatevi un Sony da casa, perdio…Ora c’è pure l’Mp3. I mezzi per non scassare la minchia al prossimo li hanno inventati. E invece niente, si e ti rimbecilliscono.

Ma insomma, perché d’estate siamo tutti cretini? Anni fa, a San Diego, vidi una maglietta molto eloquente. C’era un disegno con due cervelli. Sotto il primo, normalissimo, campeggiava la scritta: This is your brain. Sotto il secondo cervello che stava appoggiato su una sdraio, e indossava gongolante un paio di occhiali da sole infilati per proteggersi dai raggi cocenti, la scritta avvertiva: And this is your brain in San Diego. Geniale. Davvero geniale.

In fondo è così, lo sosteneva pure la teoria dei climi di Montesquieu. Il clima influsice sul temperamento dell’uomo. D’estate, con il sole, diventiamo più allegri, estroversi, carichi di ormoni guizzanti, di voglia di libertà e trasgressione.  Ed è anche giusto. La pesantezza del vivere deve essere allietata, anche se alla fine si tratta di un Sabato del villaggio di leopardiana memoria, perché dura un lampo, l’attimo di un’illusione, e poi tutto torna come prima, e "del diman non v’è certezza".

Ed è bello divertirsi, fare gli scemi, uscire dagli schemi asfittici che irreggimentano i nostri inverni. Ci mancherebbe! Lo facciamo anche noi!

 Però si può essere leggeri e divertenti senza  sconfinare per forza nell’idiozia. O no?

 

 

Ma perché continuiamo a chiamare ecologiche le case fatte di legno?? Certo, il cemento non è bello, ma sicuramente è più eco-logico. Che poi sia un cazzotto negli occhi ogni giorno, d’accordo. E surriscalda anche la temperatura, va bene. Non vogliamo certo fare una crociata anti-cemento. Però piantiamola, per favore, di dire che la casa di  legno è ecologica, tessendone le magnifiche lodi sulle riviste dedicate alle case e all’arredo. Non è vero, è una boiata. Quegli salottini deliziosi tutti in tek, libreria e parquet compresi, o l’amabile baita di montagna (che ora arriva anche nelle nostre campagne nella versione prefabbricato) NON sono inni all’ecologia. Perché, guarda caso, anche quelle sono fatte con gli alberi. Alberi decapitati che finiscono come materiale da costruzione per le nostre abitazioni che strizzano l’occhio alla natura. Natura morta, appunto. Sì, sono tante nature morte, sia che si tratti di interni o di esterni. Quindi di ecologico c’è poco o nulla. Forse c’è solo l’eco…della foresta che una volta era piena di alberi e adesso sembra una pecora appena tosata.  Non si tratta, qui, né di condannare né di assolvere intenti ambientalisti o disboscatori folli. Si tratta di piantarla di dare alle cose un falso nome, atteggiamento oggi molto di moda.