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La mia Istanbul

Viaggio di una donna occidentale attraverso la Porta d'Oriente

 

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Mi sono svegliata nella casa di mia sorella, come tutte le mattine, qui in vacanza. Ci abito solo io, per un mese, insieme ai miei gatti.

Quando mi sono diretta verso la cucina, guardando distrattamente il pavimento l’ho vista.

 

Era lì. Un piccolo geco, trofeo delle battute di caccia notturne di Anakin e Leila. Se me stava rovesciato per terra, pancia all’aria, con il corpo tranciato a metà, con la parte posteriore già irrigidita nella morte. Ma respirava ancora. L’ho girato, pietosamente. Lui ha tentato una fuga impossibile, i suoi occhietti spalancati e terrorizzati mi hanno fissato mentre agitava invano le zampette anteriori. Piccola, innocente creatura destinata a una morte che arrivava tardi, troppo tardi. Non so infatti da quante ore fosse lì. Forse da tutta la notte. L’ho sollevato delicatamente e poggiato su un pezzo di Scottex, gli ho accarezzato la testolina mentre i goccioloni mi scendevano sulle guance. Sì, lo so: è la natura. Sì, lo so: fa parte della vita. Sì, lo so: si vive e si muore. So tutto. Lo so con la testa. Ma con le emozioni non sono mai stata brava a reggere la sofferenza delle creature di questo mondo. E non sono mai stata brava ad accettare le leggi della natura. Forse le comprendo, ma non le accetto. C’è tanta ombra, e tanto dolore. E in più ogni volta che vedo un esserino predato non riesco a contenere la diga emotiva: si apre, e mi allaga.

Capita quando guardo un documentario, quando incrocio animali sofferenti o abbandonati, quando leggo di abusi e maltrattamenti. Non importa se sono animali. Sono creature. Sono anima-li, appunto. Sono importanti, anche loro.

La mia reazione diventa esplosiva, a volte, se devo assistere all’agonia. Come stamattina, come quando mi sono trovata davanti il geco a metà. Quella metà voleva vivere, a tutti i costi. Mi sorprendo spesso della forza della vita malgrado la morte, sembra quasi che tenti un’ultima sfida. Contro ogni ragione, ogni evidenza.

Ho preso il geco e l’ho appoggiato su una pianta, chiudendo la porta finestra perché i gatti lo lasciassero morire in pace. E ho aspettato, trepidante. Ogni tanto tornavo da lui ma stava lì, vivo. Si muoveva ancora. Finalmente, dopo un paio d’ore, era morto. Anche la parte superiore si era irrigidita, fissa per sempre in quella posizione strana, in quella rigidità che comincia sempre all’estremità di un ultimo sussulto, quel sussulto che fa fare al corpo un movimento radicale, quasi come venisse davvero artigliato dalla morte, alla fine.

Ero triste. Non ho mai accettato il gioco dei gatti, anche se non posso far nulla. Il fatto che nessuna bestiolina diventi poi cibo ma rimanga solo divertimento mi fa male. Come, certo, mi fanno male mille altre cose. Ma stamattina era questo che mi dispiaceva. C’era quel geco sulla mia strada. Un piccolo, insignificante geco che però mi faceva riflettere sulla mia incapacità di penetrare a fondo il mistero della natura, e dei suoi cicli. La mia sensibilità si ribella per quanto la logica ne afferri bene la necessità.

 

Tristissima, sono uscita di casa e sotto il sole cocente mi sono imbattuta nel mio vecchio professore di francese. Un uomo che adoro, che ho sempre adorato. Uno dei pochi insegnanti veri che abbia mai incontrato. Da vent’anni continuiamo a volerci bene, a stimarci. Non più insegnante lui, non più allieva io. Solo un uomo e una donna, finalmente.

Ci siamo raccontati. Come facciamo sempre. Parlando di piante e di campagne, ha deciso di invitarmi nel suo giardinetto per ammirare la bouganville di venti metri che copre tre piani della palazzina. Ne è orgoglioso come di una figlia. E in effetti era un tripudio, una festa per gli occhi, una magica  sosta di viola e di verde nel percorso sempre troppo uguale delle nostre case. Abbiamo apprezzato insieme i plumbago, con le loro nuvolette azzurre rubate al cielo, e il gelsomino, e tutte le piante e i fiori che lui coltiva in disordine (grazie a Dio) creando una macchia selvaggia dove la natura ritrova se stessa. Guardavamo le nuove gemme della bouganville, e io sentivo, forte, la vita. Mi ha perfino regalato una piccola pianta dai fiori blu, bellissimi, penetranti, due laghi di notte. Così sono tornata a casa con un vaso e una pianta. E un piccolo sorriso disegnato in faccia.

Riflettevo, più tardi, su questa mattina intensa, imprevista. Prima avevo assistito all’agonia di una lucertola, poi all’alchimia di una pianta meravigliosa che vuole toccare il cielo per ornarlo di viola.

Morte. Vita.

Questa è l’esistenza. A volte terribile, difficile da comprendere nei meccanismi di luci e di ombre, di gioia e di sofferenza. In ogni istante, qualcosa muore e qualcosa vive. Provo ad accettare.

Se solo riuscissi a osservare questa danza senza farmi travolgere…

Ma è la mia natura. E ho deciso di accettare anche questa.  

 

 

 

 

 Va bene, cambiare non è facile. Mai. Però a volte esercitiamo una vero e proprio pre-giudizio prima di conoscere davvero qualcosa. A me è accaduto con Vista. Forse perché, insieme alla pigrizia, avevo raccolto i numerosi malumori di esperti del settore, come alcuni amici webmaster o consulenti aziendali che lavorano sul web.

Solo che questi giorni, per cause di forza maggiore (il mio computer ha seri problemi tecnici) ho dovuto avvicinarmi a Vista in quanto il mio nuovo portatile ha, come tutti i portatili, il nuovo sistema che rimpiazzerà Explorer. Al quale, come tutti, sono molto affezionata.

Devo dire – con mia sorpresa – che Vista non è così drammatico come temevo. Sì, certo, presenta un funzionamento diverso, più articolato (si aprono insieme tantissime cartelle, tutte nello stesso momento), e all’inizio ci si sente un po’ spaesati. All’inizio. Poi, però, in modo intuitivo si cominciano a riconoscere le procedure diverse per lavorare sui nostri file, archiviarli, creare sezioni, ecc.

Ovviamente Explorer era più “semplice”, lineare. Ma, come sempre, è una questione d’abitudine. In fondo, pensiamoci: avremmo mai immaginato, anni fa, di trascinare immagini su uno schermo, tagliarle, inserirle in slide e presentazioni? O di usare l’editor del nostro sito, creando pagine intere attraverso un sistema di tasti?

Il punto è che per anni il nostro computer si è sempre basato su Explorer per fare ogni operazione.  E noi ci siamo anche “adagiati”. Come succede con la solita strada che facciamo per andare dall’amica in campagna. E’ piacevole, accogliente e soprattutto priva di sorprese. Se un giorno però quella strada è chiusa per lavori in corso, dobbiamo cercare un’alternativa. E’ quanto mi è accaduto con il computer fuori uso. E ho scoperto che quell’alternativa forzata non mi dispiace affatto. E se pensavo di trasferire Explorer anche sul mio portatile, adesso sono decisa a proseguire la mia navigazione…a Vista.

Ci sono ostacoli, sorprese, opzioni che devo ancora capire, studiare. Ma non è poi così male. Davvero. A volte sono proprio le “pantofole della mente” a crearci il problema maggiore. Non vogliamo tirarci fuori dalle nostre meravigliose abitudini, non vogliamo davvero. E invece non è così male…

 

 

E’ da una settimana che sorrido, ripensandoci. Quando un mio amico mi ha mandato un sms chiedendomi se volevo andare a vedere Angeli e demoni ho risposto di sì, anche se Dan Brown non è certo un autore che amo. Ho pensato a una sera qualunque al cinema, non all’anteprima mondiale del film! Il sospetto mi è venuto quando, arrivata all’appuntamento, lui mi guarda con aria vagamente schifata: "Ti avevo scritto di vestirti carina…" In effetti ero un po’…trash? Calamity Jane? Giubbetto di pelle rosso, jeans e stivali texani, pashmina bianca, capelli anarchici e sacca dello yoga (venivo direttamente dalla lezione). Lui, elegantissimo come sempre.

Insomma, partiamo diretti all’Auditorium di Roma. E, mentre arriviamo, il sospetto diventa realtà: mi trovo in un bagno di folla elegantissima, dove le signore sembravano le nipotine (e le nonnette) di Paris Hilton: tacchi trendy, capelli freschi di messa in piega, foulard elegantissimi e abiti da sera. Uomini: uguali (anche i capelli freschi di messa in piega) ma senza tacchi né gonne. Argh. Il sospetto cedeva il passo alla costernazione. Per quanto sono una che se ne frega, ero davvero troppo…fuori posto.

Sembravano tutti usciti dalla notte degli Oscar (e diretti alla Croisette). Okay, è la prima romana. Va bene, ho sbagliato. Mi faccio forza e sostengo gli sguardi delle placide signorotte (e resisto anche alla puzza di quei profumi). Prendiamo un aperitivo? Sì sì, prendiamo un aperitivo. Poi, all’improvviso, qualcuno chiede se Tom Hanks è arrivato. Tom Hanks? Non oso approfondire apertamente ma ci arrivo pian  piano da sola: non è la prima romana, è la prima…mondiale. Gulp. E va bene, ormai ci sono. Una chiazza rosso pelle in un oceano di abiti scuri e gioielli. La calca avanza verso l’ingresso. Che prevede il famoso tappeto rosso. Ai bordi, guardie svizzere e transenne ovunque, al di là delle quali una folla di "gente qualunque" (io ero…coi vip) sbraita, si agita, sventola le mani e alza i decibel con la voce.

Ma mi faranno passare? Casino, pigia pigia, stress stress e strass strass…ma ecco che siamo lì, sul tappeto rosso. Rosso come il mio giubbino da motociclista.

Guardo le guardie, loro guardano – e guardiano – me.

Passo. E mi sento la Stephanie di Monaco de noantri. Certo! Per essere vestita così devo per forza sembrare la figlia sghemba di qualche riccone, la "strana" della famiglia di sangue blu (o dell’euro-sangue, che oggi paga, e non in senso figurato, di più).  In "quel mondo" fa così – infatti – solo chi "se lo può permettere". Mentre avanzo sul tappeto e faccio la mia radical-chic-sfilata sotto gli sguardi degli "esclusi" mi viene davvero da ridere.

Appena entriamo ci sequestrano i cellulari. E passano alle borse. La mia non è una di quelle pochette di dimensioni subatomiche esibite dalle signore. La mia è una specie di tolfa in pelle sdrucita, molto vecchiotta. Ed è piena di oggetti di metallici. Di chiavi. Non sapevo che sarei dovuta passare attraverso un sistema di sicurezza degno di un G8. Così blocco la fila mentre gli agenti, impietosi, mi fanno aprire la borsa (cosa non c’è, nella mia borsa) e tirare fuori uno ad uno i nove mazzi di chiavi (beh, se sono la Stephanie di Monaco de noantri avrò pure una serie di proprietà, no?). Manco a farlo apposta, quel giorno avevo con me tutti i doppioni, perfino le chiavi di casa dei miei nelle Marche…Mi mancavano solo le chiavi del Paradiso. Dopo circa dieci minuti ce la faccio e, vittoriosa, mi dirigo nella sala con il mio amico e altri tizi di sua conoscenza (tutti elegantissimi).

Ci sediamo (posti in prima fila: ma stasera ce l’hanno con me…) e passa un’ora e mezzo di attesa prima che le star arrivino per la presentazione. Tom Hanks: simpatico, come sempre. Ron Howard: beh, mi piaceva di più quando era il Riky Cunningham di Happy Days, una vita fa.

Lei: attrice di cui non ricordo il nome. E poi, luce per gli occhi, il bell’Ewan Mac Gregor (ed è pure bravo)

Insomma, ce l’abbiamo fatta, tra l’entusiasmo della folla loro dicono le solite baggianate americane (ma fanno tanto glamour) e il film inizia. La cosa che mi è piaciuta di più? Il fatto che fosse in inglese (non riesco mai ad allenare questa lingua che adoro). E, guardandomi bene bene intorno, c’è anche un’altra cosa che mi è piaciuta un sacco: il mio vestito.

 

 

Piccolo spazio pubblicità.

Ai tempi della crisi, si sceglie volentieri di menzionarla. E’ un esorcismo, un citare la parola incriminata per toglierle potere, per eliminare lo spauracchio, il bau bau, l’orco nero del nostro consumismo.

A me, personalmente, questa scelta non piace. Perlomeno, finora non ho trovato un modo elegante, efficace, nell’affrontarla inserendola negli spot. Che a volte finiscono per essere ancora più "falsi", più lontani dalla realtà, di quelle Borse che all’improvviso hanno rivelato la facciata bugiarda dietro la tracotanza, the dark side of the banks.

Stucchevole, posticcio, irritante. Mi riferisco allo spot della Coca Cola, quello che spara in scena Giulia, eroina post-consumista che alle vacanze in un resort preferisce la casa della nonna, alla pizza il sushi, al salame il caviale, al ristorante costoso un ragù fatto in casa…

Pare quasi un ritorno alla vita frugale, alle smarrite identità comunitarie. Un inno alla semplicità, al "fai da te fai per tre", ai valori tradizionali che si contrappongono a questa modernità così vuota, plastificata. Peccato che poi Giulia si tracanni litri di Coca Cola.

La prima volta che ho visto la pubblicità, che all’inizio mi aveva divertito, incuriosito (i disegni sono molto carini), alla comparsa ldella Coca Cola – sorpresa sorpresa! – sono rimasta basita. E mi sono sentita agguantare per i fondelli.

Non prendere, agguantare.

Perché davvero la Coca Cola è invece il marchio imperituro del consumismo, dell’omologazione, di tutto ciò che di global esiste al mondo. E’ perfino riuscita a venderci la sua immagine di Babbo Natale, che da allora – e per sempre, nei secoli dei secoli, amen – sarà identificato con il signore panciuto e rossovestito che gironzola nei nostri cieli tra renne e strenne. E che, ci scommettiamo, ha contribuito a tanti natali spendaccioni (a proposito: Giulia, a Natale che fai? vai a fare il cenone alla Caritas?).

Sento puzza di presa in giro. Sul serio, è ridicolo che una simile pubblicità sia propinata proprio dalla Coca Cola. E vada per le ricerche della felicità (molto diverse da quella del film di Muccino) a suon di lattine stappate, ma quest’ultima trovata pubblicitaria è veramente fuori luogo. Esageratamente fuori luogo.

Io mi sento presa in giro. Non c’è male, come "restyling" pubblicitario: dalle evocazioni di esistenze luculliane ed epicuree a una versione "saturnia", austera e rigorosa.

Beh, io di Coca Cola non ne bevo molta. Ma adesso ridurrò il suo consumo. Perchè voglio seguire i consigli di Giulia: invece di comprare lattine (che poi finiscono per inquinare) bevo solo acqua di rubinetto.

Giusto, Giulia?

 

 

 

Ciao è secco. Ciao ciao appare – chissà perché – personale. Ciao-ciao-ciao è perfetto. Un microdcopico discorso che simula rimpianto, e suona come un bambino in una pozzanghera o un vecchio ballo (cha-cha-cha).

Alcuni appassionati hanno già introdotto una variante, cambiando l’ultima vocale. Ascoltate le conversazioni telefoniche – non è difficile,  in Italia – e scoprirete il ciau-ciau-ciau: un piccolo ululato sociale, informale e confidenziale. Questa forma in u piace alle donne. Di solito sono giovani e semigiovani, informate, disinvolte e un po’ snob: annusano le nuove tendenze come il setter sente l’odore della lepre, e si lanciano all’inseguimento. Una giovane brillante collega, per esempio, ama "ciauciauciauare" il mondo, e si aspetta che il mondo risponda a tono. Ciauciauciau! biascica la direttore del giornale, lasciando intendere un’orgogliosa indipendenza. Ciauciauciau…sussurra agli amanti, rammentando un’insufficiente intimità.

(Beppe Severgnini – L’italiano. Lezioni semiserie)

 

Divertentissimo e veritiero, questo spaccato dell’Italia alle prese con il saluto più famoso del mondo.

Una persona che conosco salutava sciorinando una sfilza di Cia-cia-cia-cia-cia, ma il risultato più divertente è il suono con cui una mia carissima amica apriva e chiudeva le telefonate: "Sciauuuuu". Ancora più incredibile di ciauciauciau, se possibile. A volte quando salutiamo sembriamo dei cretini.

Specialmente al telefono, dove non ci si vede e allora il suon o diventa ancora più ilare o, al contrario, raccapricciante. C’è chi tira su la cornetta emettendo grugniti primordiali alitando un "Prontou" (con la o che precipita come un areo in picchiata). O c’è chi, originalissimo, risponde con un "Pronti!" Sì, partenza e via.

Sempre di moda il solito "Sì?", ecumenico, valido per tutte le stagioni. Che, quando sei un po’ scoglionato, diventa "Seeeee?"

In America il ciao, telefonico e non, diventa Hi (stessa pronuncia del nostro "ahi": gli americani, quando si fanno male, esclamano "auch!" per non…salutare il dolore)

Quando vivevo a San Diego, tantissimi anni fa, all’inizio ero un po’ turbata da quei saluti "doloranti" che tutti quelli che incontravo mi squittivano addosso. Poi ho capito che in California ti salutano tutti. Ma proprio tutti. Cammini e: hi! hi! hi! Hi!.

Roba da fare invidia a Mike Buongiorno e alla signora Longari (ricordate?).

Ma il ciao rimane il saluto più bello. E poi è universale, lo diciamo quando ci incontriamo e quando ci separiamo, a differenza di altre lingue che pongono dei distinguo.

Probabilmente perché non vogliamo fare fatica. E anche perché, in fondo, noi italiani siamo sempre un po’ furbacchioni: "Ciao", dice il solito marito alla moglie quando scende a prendere le sigarette…