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La mia Istanbul

Viaggio di una donna occidentale attraverso la Porta d'Oriente

 

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I nostri grandi amori. Oggi non ne esistono più, si è persa la favola. Telefonini, computer, sms. Mi trovi uno che scriva ancora lettere alla fidanzata, se ne è capace. Gli italiani sono sempre più cretini, malati di padreternismo, egoisti e primitivi. Mi era rimasto Berlusconi, l’unico che mi facesse ridere in un paese che non ride più.

Con la sua caduta è morto l’ultimo pagliaccio d’Italia, aveva una stupidità che incanta.

(Alda Merini, intervista, La Repubblica del 27 agosto 2006)

 

 

 

Policinico. Non è un refuso. Anzi, lo ripetiamo: Policinico.

 

É quel lager che teoricamente si chiama  Policlinico Umberto I, qui a Roma, ma che in realtà non merita tale nome.

Si tratta infatti di un mattatoio, un luogo in cui un’umanità ammaccata, dolorante, è alle prese con la spietatezza burocratica e umana  di medici e infermieri più vicini alle Ss che a un personale ospedaliero.

Soprattutto al pronto soccorso, indice del reale funzionamento

di un ospedale, luogo di smistamento e diagnosi immediata per cure in seguito più approfondite.

 

Beh, se il grado di civiltà  di un ospedale si verifica dal pronto soccorso, il modello del Policlinico Umberto I concorre con Auschwitz.

 

Ti capita di recarti lì per un orecchio infettato e sanguinante che oltre a gonfiare collo e mascella non ti fa più respirare dal dolore. Sono quasi le otto alla vigilia della notte bianca (che anche per te sarà bianca, ma non nel senso delle euforie  weltroniane…).

Ti trovi all’improvviso in una sala d’attesa che sembra una stazione Termini notturna: uomini e donne accasciati per terra, alcuni addormentati sulle sedie, altri che si aggirano come fantasmi o fanno ossessivamente su e giù nel corridoio davanti alla sala, l’unica, in cui un medico, l’unico, vede man mano i pazienti.

Persone parcheggiate, ignorate, maltrattate. Una signora anziana è lì dal mattino per un dolore alla caviglia, all’improvviso scoppia a piangere perché non resiste più e si rifiuta di rimanere ancora stesa sul lettino (lì accanto c’è la zona “obitorio”, una saletta con tanti lettini su cui sono deposte persone ormai immobili come cadaveri per l’attesa estenuante. Non vola una mosca). Un signore prende le sue difese e la aiuta a chiamare un taxi per andarsene mentre l’infermiera la rincorre sventolando “l’accettazione” ormai firmata che fa di lei un’evasa.

In effetti questo posto sembra un carcere, peggio ancora, sembra Auschwitz.

Incurante di dolori, di crampi, di ogni tipo di sofferenza, l’infermiera legge ad alta voce i nomi dei condannati, poi separa un gruppo dall’altro sempre con quel tono metallico, e scansa ragazze pallide con la mano sulla pancia, uomini così vecchi che la loro  faccia che sembra la falda di Sant’Andrea, blocca chi prova a fare capolino nella stanza del medico per accelerare un’assistenza negata da quattro, cinque ore.

Se questo è un ospedale, dici parafrasando Levi.

 

Perché un abbrutimento simile?

L’infermiera ha la stessa grazia di un giocatore di wrestling, la stessa pazienza di un toro a Pamplona, la stessa voce premurosa e avvolgente di Vanna Marchi.

Certo, bisogna dire che al pronto soccorso arrivano anche i furbetti, quelli che per non andare dal medico di base preferiscono il pronto-soccorso e magari sono lì per un foruncoletto irritato o un mal di gomito dopo due ore di flessioni in palestra.

E intasano, intasano ancora di più questo supermercato della sofferenza.

Ma c’è gente che sta male sul serio, perbacco, e che viene semplicemente ignorata. E maltrattata.

 

A un certo punti ti fanno entrare solo perché stai svendendo dal dolore, e sotto minaccia del tuo amico alla fine l’infermiera-macellara si decide a trascinarti dentro, dove però, in quel purgatorio, ti fai un’atra ora  e mezzo in attesa dell’otorino che, ti dicono, è stato chiamato.

Lasciata lì, su una sedia a rotelle in una stanzetta, aspettando Godot l’otorino, osservi il tran tran di “militari” (le divise verdi e quel piglio autoritario fanno pensare a tutto tranne che a un servizio di assistenza) e speri che questa guerra finisca presto.

Ma da dove arriva l’otorino? Quando atterra su questo pianeta?

 

Sei sfigata perché becchi pure il cambio di guardia perciò la visita viene rallentata, archiviata, sospesa fra uno che si toglie la divisa e un altro che la indossa mentre magari fogli e chiamate si confondono nel casino.

 

Dopo tanto, tantissimo tempo e qualche accidente che ti lancia un’infermiera davanti ai tuoi solleciti disperati, finalmente Godot si manifesta e ti guarda l’orecchio.

Data la cura, lasci l’ospedale con un senso di disfatta e amarezza pensando ancora a tutti quelli che, buttati qua e là, attendono che il Policinico li assista.

Roba da denuncia. Vivere la sofferenza del prossimo in questo modo ignorante e aggressivo è una vigliaccata in un paese che si proclama civile.

 

Ma di quale civiltà stiamo parlando? Siamo sicuri che i veri barbari siano sempre altrove rispetto a noi?

 

p.s. gli ultimi post ispirati da liriche bellissime hanno subìto una virata notevole con questo ultimo inserto, ma anche questo fa parte della realtà. Si tratta della leggerezza contro la pesantezza….Chi vuole può comunque leggere di Auden postato ieri, che per motivi…mala- sanitari è restato in testa per pochissimo tempo.

 

Divertente. Il mulino di Amleto è nato da poco e già alcuni blog, che hanno invece più di due anni e che appartengono al "serioso" mondo della letteratura e dell’editoria, per la prima volta si lanciano in cronachette divertenti. Forse perché si rendono conto di avere commenti così esigui da essere praticamente assenti. E sappiamo che ci conoscono e che a volte passano di qua per monitorare il nostro stato di salute.

Beh, non è la prima volta che qualcuno che si aggira nei nostri paraggi ci copia il modo di fare e le idee, incassiamo anche questa!

La cosa che fa più piacere è che alla fine alcuni di questi personaggi seriosi, di quelli magari incravattati, con giacchettine doc e camicie sartoriali firmate, devono ammettere che la loro seriosità…annoia.

Anche nel mulino ci sono estratti letterari, e ce ne saranno ancora di più a settembre, quando sarà nuovamente possibile afferrare i libri dalla libreria e pubblicare alcuni brani, ma rimane sempre un senso di leggerezza, nella consapevolezza dell’importanza della lezione offerta da Italo Calvino.

Insomma, non si può fare cultura solo citando, e citando, e citando. Magari con quella spocchia che ha fatto smarrire per strada molti lettori. O senza fare commenti, senza appoggiarsi anche alla realtà quotidiana.

Peccato che alcuni individui che si aggirano nel settore editoriale e letterario se ne accorgano solo ora, dopo anni di indefessa seriosità citazionista…ma a noi fa piacere, per carità! Si vede che facciamo le cose per bene…

Del resto internet è uno strumento magnifico ma, allo stesso tempo, agevola i già imperanti scopiazzamenti, specie nei settori culturali in cui la comunicatività e le idee sono spesso assenti…

Noi proseguiamo la nostra piccola battaglia per dare leggerezza alla cultura, o meglio restituirgliela, anche attraverso il sorriso, il divertimento.

Naturalmente non pensate che non troverete anche i libri e i giornali, anzi! Solo, ci sono diversi modi per raccontarli…

 

A questo punto, per chi non lo sa, spieghiamo che Il Mulino di Amleto è il blog "ufficiale" dello Studio Stylos, che si occupa di editoria, giornalismo e comunicazione.

Perché un blog? Perché la sottoscritta è una giornalista (o una giornalaia, forse) e si occupa da tanti anni di libri e cultura, combattendo perchè possa fiorire anche in un contesto gaio, poco pretenzioso (vedi il post "Spocchie" su "Idiosincrasie"), fatto di cuore oltre che di cervello. Bella impresa.

Senza gli -ismi diventa difficile ma anche più stimolante. Gli ambienti letterari, colti, eruditi, sono spesso afflitti da intellettualizzazioni egocentriche e narcisiste che rendono difficile l’esercizio della riflessione, dello stimolo pronto a cercare di captare la realtà che ci circonda, favorendo i tormentoni estivi e le altre demenze di cui spesso parliamo nei post.

Per questo è nata anche la rivista on line Silmarillon (la trovate alla voce www.stylos.it oppure andando direttamente su www.silmarillon.it), che ospiterà alcuni di questi post adatti a essere traslocati nelle rubriche.

Sì, esatto! Ci stiamo facendo bieca pubblicità. Consigli per gli acquisti. Tanto Silmarillon non costa nulla. É gratis. E scaricabile in Pdf dal computer.

Costa tanto, invece, provare a fare riviste on line che sfidano i luoghi comuni delle famiglie ideologiche (religiose, culturali, laiche, metropolitane, politiche, ecc…) cercando di unire…Amleto a un mulino.

Per farlo si percorrono le Vie dei Canti. Ognuno ha la sua, e ogni volta che ne incrocia un’altra è possibile arricchire il proprio canto.

Già, occorre una Via dei Canti per unire Amleto al mulino. Ma è possibile. Più si viaggia più si scopre che dietro la caleidoscopica complessità dell’esistenza si cela un grande disegno comune, in qualche modo a-temporale.

Ma non lo diremo mai con la stessa bellezza del genio irripetibile di Borges:

"Come ben sapete, ho viaggiato molto. Il che mi ha permesso di comprovare l’affermazione che il viaggio è più o meno illusorio, che non c’è nulla di nuovo sotto il sole, che tutto è una sola cosa e sempre la stessa, eccetera, ma anche, paradossalmente, che è infondata la sfiducia di trovare sorprese e cose nuove: in realtà il mondo è inesauribile".

(Borges, "Teologia", in Racconti brevi e straordinari)

 

 

E va bene. Quest’estate è all’insegna delle ribellioni della tecnologia. Dopo il blog impallato, ecco che arriva il cellulare con la scheda im-mobile. Già, perchè decidi, onorabile figlia del progresso, di dare l’estrema unzione alla tua vecchia scheda Sim, un aggeggio del Pleistocene che ti ha servito fedelmente per molti anni, ma la cui memoria esigua (16 kbite) non riesce più a contenere il volume di numeri che stai aggiungendo. Così ti decidi a fare il grande passo, il trasloco della scheda. Tanto ci vuole solo un’ora, ti dicono, uno stand by fra i due passaggi di proprietà, poi a un certo punto arriva la fumata bianca, e la nuova scheda, alè, è riconosciuta e accettata dal Grande Telefono. Bene, bene. Procediamo. E per sicurezza, la sera prima ti decidi a copiare con certosina pazienza i numeri di telefono su un supporto cartaceo (lo diciamo tutti tante volte, non lo facciamo mai. Ma se i telefoni si rompono? Se le schede vanno in vacca?). Un’ora per più di duecento numeri. No non male, sei il Valentino Rossi della penna gel a inchiostro nero. Comunque a questo punto ti senti "al sicuro", con una garanzia per il futuro dei tuoi numeretti. Insomma, un investimento…su carta. Arriva la mattina seguente, cioè stamani, e tu – tutta gongolante – metti la nuova Sim card sul telefonino, e ti appresti ad attendere l’ora prevista da quando chiami il centro per l’attivazione al momento in cui la carta diventa attiva. Solo che…non succede nulla. Nulla. La Sim card è muta. Morta prima ancora di essere nata. E ricomincia l’uragano Katrina che ti aveva devastato "le interiora" quando il blog era bloccato. Passano due ore, il nulla. Dopo tre, ancora il deserto. Per di più al centro Tim sono in pausa pranzo. E San Michele di Senigallia stavolta non può salvarti, lui è il santo dei computer, per i cellulari ci sono altre gerarchie celesti e tu non conosci le parole di passo. E ripensi di nuovo a Tiziano Terzani e vorresti essere nell’Himalaya per scordati della telefonia mobile, immobile e di ogni sua stirpe. Ma non ci stai, nell’Himalaya, e vivi in città, nell’era del Grande Telefono. "Tutto intorno a te", col ditino a cerchio sul mondo. Beh, in quel momento non  pare proprio. Niente ditino…e niente mondo. E pensi che in quel lasso di tempo fatidico in cui sei un utente irraggiungibile, spiacente, ti chiamino per lavoro, ti propongano una serie sinergie per progetti importanti, ti annuncino la vincita di un viaggio alle Maldive (meglio a Cuba); pensi che il Principe Azzurro ti avvisi del cambio da un solo cavallo a cento (infatti ti informa: arriva a prenderti in automobile, ma arriva…), che un grande quotidiano ti contatti perché ha bisogno di te come caposervizio alla cultura, che il Presidente della Repubblica venga in visita a casa tua per darti una medaglia d’onore (a cosa non importa, ma l’onore, capite?), che Bush ti telefoni per chiederti cosa deve fare con i piccoli incidenti che turbano i suoi viaggi a Camp David, che i Libanesi invece ti facciano un indovinello dalla cui risposta dipenderà la vacanza cronica di Hezbollah…e a un certo punto ti ritrovi, di nuovo, davanti a  quella sensazione comica della crisi di astinenza da tecnologia. Ecco, senza cellulare il mondo si è come fermato. Davvero? E una volta come facevamo? Possibile che adesso siamo tutti così dipendenti? Che magrado le lamentele alle prima occasione ci cadiamo sempre con tutte le scarpe? Non possiamo fare a meno di Vodafone per guardare sul serio il mondo intorno a noi, e farlo senza parlare come matti da soli, gesticolando nell’aria? Intorno a noi…la follia? Ma siamo nella Matrice e uscirne è davvero dura. Berciare sui cellulari con l’illusione di governare il mondo, mentre invece è il Grande Telefono che governa noi. Quando la Sim card finalmente si attiva, e tu hai tutto di  nuovo intorno a te, ti rendi conto che invece la cosa di cui hai davvero bisogno…è di un poco di silenzio dentro. Non intorno, proprio dentro.