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La mia Istanbul

Viaggio di una donna occidentale attraverso la Porta d'Oriente

 

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Me ne stavo – abbastanza stressata a dire il vero – nella mia brava fila al supermercato, con il carrellino, desolato, che ospitava quelle cosette tipiche che ti compri quando non hai né tempo né voglia di cucinare (That’s amore Findus, stracchino, bresaola, lattuga imbustata e già lavata).
A un certo punto mi giro e compare lei, la vecchietta che scalza tutti facendo lo slalom, sgomitando e affermandosi con una grinta che neanche le Veline con il loro stacchetto di coscia… Sculettava anche lei, la nonnina, passando avanti a tutti, allegramente.
“Grazie grazie, vedo che lei ha meno roba”. Ma non era mica vero. E si ingobbiva ancora di più, la furbacchiona. Che secondo me godeva di una salute migliore della mia. Infatti è andata via trotterellando dopo essere passata davanti a tutti, considerandolo un dato di fatto, semplicemente.
Ora, riconosco il diritto di anzianità, figuriamoci. Ma almeno l’educazione…
Sempre più spesso, in giro, mi capita di vedere queste nonnine d’assalto che, vere figlie della contemporaneità, hanno imparato i trucchetti dell’individualismo, della maleducazione e dell’egoismo.
Un’altra, alla posta, la settimana scorsa si è intrufolata, quatta quatta, fra le persone che aspettavano e zac!, all’improvviso è piombata con fare rapace sul bancone senza che nessuno potesse realizzare l’accerchiamento.
Colpiti e affondati, tutti noi, i cretini che stavano lì da almeno un’ora.
Se le persone anziane pretendono rispetto, devono anche essere capaci di offrirlo.
E invece sempre più spesso diventano ostili, selvagge.
Alla faccia della saggezza.
Vero, si sono dovute adeguare a questo triste mondo di quotidiana lotta metropolitana.
Ma non sopporto sentir parlare della maleducazione giovanile quando poi mi rendo conto di quanto siano massicce le arroganze senili.
Anche se non sono tutte ciccia e brufoli, pure le vecchiette sanno passare avanti, fregarsene de prossimo e usare i trucchetti.
Comunque la prossima volta, per far presto al supermercato, mi tingo i capelli di grigio…

 

L’aria fresca pizzica sulla pelle. Finalmente. Non ne potevo più di quell’umidità che rende tumefatto il cervello.

Mi piace il sole. E a chi non piace? Ma non mi piacciono più queste estati più vicine ai Tropici che al Mediterraneo.

Anzi, le detesto. Il caldo troppo aggressivo, l’aria densa, che pesa come un mattone sulle teste di tutti, mi fanno sognare il passaggio di nuvole e pioggia.

E penso all’improvviso al mio omeopata.

Quando vai dall’omeopata, lui cerca di capire che tipo sei, a quale "rimedio" appartieni. Una delle domande classiche è questa: "Preferisce il mare o la montagna?".

Beh, preferisco il mare ma solo la mattina presto e la sera tardi, quando il sole è lieve e ha  addosso l’odore della notte. Quando ci sono solo i vecchi e i bambini, sulla spiaggia.

Sono i più furbi, loro.

"Prendono" il sole migliore.

A proposito, una curiosità. Chissà perché diciamo "prendere". Prendere il sole. Mica è nostro, il sole.

La nostra solita smania di possesso…

 

 

Sempre, all’alba, speriamo in un mondo nuovo. Una mia amica mi raccontava di come, all’alba, avesse luogo sulla spiaggia il raduno dei sogni, tutti lì a guardare il mare, aspettando di esistere.

Mi sembra un’immagine molto bella. La porto con me.

Io preferisco la luna e i suoi arcani stupori. Ma l’aurora ha il suo mistero e qui al mare, d’estate, il sole si alza sull’acqua dopo il suo viaggio notturno, dopo aver rincorso la luna e forse dormito altrove con lei, nello spazio dei miti e dei sogni.

E regala all’acqua un colore bellissimo. Un azzurro trasparente che sembra contenere tutti i luoghi del mondo, come in una palla magica, come nell’Aleph borgesiano.

Se i sogni davvero si radunano all’alba, sulla spiaggia, aspettando di esistere, allora è in quell’attimo che si apre il confine magico tra ogni mondo.

 

 

Con usura nessuno ha una solida casa
di pietra squadrata e liscia
per istoriarne la facciata,
con usura
non v’è chiesa con affreschi di paradiso
harpes et luz
e l’Annunciazione dell’Angelo
con le aureole sbalzate,
con usura
nessuno vede dei Gonzaga eredi e concubine
non si dipinge per tenersi arte
in casa ma per vendere e vendere
presto e con profitto, peccato contro natura,
il tuo pane sarà staccio vieto
arido come carta,
senza segala né farina di grano duro,
usura appesantisce il tratto,
falsa i confini, con usura
nessuno trova residenza amena.
Si priva lo scalpellino della pietra,
il tessitore del telaio
CON USURA
la lana non giunge al mercato
e le pecore non rendono
peggio della peste è l’usura, spunta
l’ago in mano alle fanciulle
e confonde chi fila. Pietro Lombardo
non si fe’ con usura
Duccio non si fe’ con usura
nè Piero della Francesca o Zuan Bellini
nè fu "La Calunnia" dipinta con usura.
L’Angelico non si fe’ con usura, nè Ambrogio de Praedis,
nessuna chiesa di pietra viva firmata :"Adamo me fecit".
Con usura non sorsero
Saint Trophine e Saint Hilaire,
usura arrugginisce il cesello
arrugginisce arte ed artigiano
tarla la tela nel telaio, nessuno
apprende l ‘arte d’intessere oro nell’ordito;
l’azzurro s’incancrena con usura; non si ricama
in cremisi, smeraldo non trova il suo Memling
usura soffoca il figlio nel ventre
arresta il giovane amante
cede il letto a vecchi decrepiti,
si frappone tra giovani sposi
CONTRO NATURA
Ad Eleusi han portato puttane
carogne crapulano
ospiti d’usura.

(Ezra Pound)

 

Non mi interessa se Pound sia di destra o di sinistra. Non mi interessano – davanti all’arte – i colori politici, spesso appiccicati dopo che si è detto, scritto, fatto.

Nel post mortem a ogni artista viene regalata un’aderenza. Vecchia faccenda, quella dell’arte e della politica.

Di Pound ammiro il pensiero lucido, profetico, quel suo frugare nella civiltà moderna per estrarre con malinconica inclinazione i demoni che si agitano nei sotterranei.

L’economia come male moderno, il sistema bancario come luogo di indebitamento che consente il progresso di una società (progresso che, mentre lei progredisce, al rende più schiava, più indebitata, in  un gioco perverso su cui si fonda il monderno benessere, il consumo che chiama consumo), il recupero della natura come luogo arcaico, spirituale che conserva le radici dell’essere. Questo, io amo in Pound.

Non mi stupisce dunque rivedere in televisione un estratto del famoso incontro con Pasolini. Due uomini uniti dal potere del mito, Pound innamorato dall’America dei pionieri, dei padri fondatori, dell’avventura libera; Pasolini sedotto dall’Italia contadina, ancora vergine, mai deflorata dalla corruzione delle grandi città.

Due uomini che la storia mette agli antipodi per le convinzioni politiche, ma che l’arte lega nella sensibilità che sente l’odore eterno di bellezza e armonia, quello dei primordi, prima che la storia fosse.

Pound e Pasolini si annusano, si riconoscono, si corteggiano. Si incontrano nei luoghi in cui il verso si fa coltello e squarcia le nubi del comune pensare, delle negligenze quotidiane, dei torpori in cui l’uomo si perde.

Sia Pasolini che Pound vivevano sulla pelle quello che Freud chiama "il disagio della civilità", ma soprattutto andavano un po’ più in là, esplorando quei confini da cui lo sguardo si perde nella lontananza in cui rimbalza il presente, e guardavano con gli occhi pazzi del profeta il mondo che sarebbe stato un domani. Domani che è oggi.

E oggi, oggi sento l’assenza delle loro voci.

 

Oggi, a pranzo, sentivo alcune persone lamentarsi del vento. Di fatto Roma è “ripulita” da un venticello fresco, che fa fare i capricci ai capelli e pizzica piacevolmente la pelle. E che magari entrando dalle finestre scompiglia – birichino – i fogli radunati sul tavolo del nostro studio. Dopo le torride giornate che squagliavano cemento e pensieri mi sembra un bel regalino, questa frescura in cui il caldo non si gonfia di umidità.
Eppure alcune persone si lamentavano del vento. Ingrate. 

Poi ho pensato che, di fronte al tempo, siamo sempre pronti a lamentarci.

Fa caldo.
Fa freddo.
Non si respira, senti che afa!
Accidenti a questo vento.
Uffa, piove.
Non piove mai.
Guarda che tempo grigio.
Ma quand’è che arrivano un po’ di nuvole? Con tutto ‘sto sole…

Già. Non siamo mai soddisfatti del tempo. Vorremmo piegarlo ai nostri desideri, ai nostri bisogni.
E per quanto lui si dia da fare, siamo quasi sempre scontenti.

Ci attardiamo a osservare e giudicare il destino meteorologico delle giornate.
Loro, invece, le giornate, se ne fregano dei nostri commenti.

Le condizioni metereologiche, poi, sono sempre relative. Ciò che male a uno, fa bene all’altro.
Quando piove, per esempio, e corriamo affannati sotto gli ombrelli, incartandoci con le nostre auto nel traffico che all’improvviso si imbizzarrisce, le piante invece si sporgono tutte contente verso quell’acqua provvidenziale.
Pensando alla pioggia, ricordo quella volta in cui decisi di ignorare l’ombrello. Di fatto, a volte sembriamo un po’ isterici davanti a innocenti gocce d’acqua che tutt’al più ci infradiciano qualche vestito. Cominciamo a correre qua e là, impazziti, manco si trattasse dell’uragano Katrina.
Così quel giorno, dicevo, decisi di mollare a casa l’ombrello. E me la godetti tutta, l’acqua che scivolando mi attraversava i capelli impigliandosi in qualche riccio eccessivo, che bagnava i pensieri, inumidiva la pelle. Camminavo così, senza correre, in mezzo a gente frettolosa che galoppava a passo spedito verso la sua abitazione. Sembravo un po’ un’aliena, impegnata in questa buffa moviola prodotta dal mio camminare lento in mezzo a uno scalpiccio epilettico. Un tempo rallentato e un tempo accelerato, uno fatto di testa nuda, l’altro di ombrelli e cappelli, si affrontavano, quel pomeriggio, sul marciapiede.
“Neanche la pioggia ha così piccole mani”, recita una poesia di Tennessee Williams.
Bellissimo verso, mi è sempre piaciuto.
Quel giorno le mani della pioggia mi sfioravano decise e allo stesso tempo delicate.
Fu un momento davvero speciale.
Peccato, però, che lo pagai con un paio di giorni di febbre.
Così "mi imparo" a fare l’eroina dei temporali.
Il fatto è che non siamo più abituati, ci difendiamo in modo forse eccessivo dalla natura, accogliendo invece a braccia aperte quello che ci fa male. Come lo smog delle auto. Come i cellulari. Come il cemento che tutto invade. 

Invece ce la prendiamo con il tempo. E con il governo ladro.

Ride, il tempo. Perché in fondo sa che altrove, non esiste neppure. Come noi.