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La mia Istanbul

Viaggio di una donna occidentale attraverso la Porta d'Oriente

 

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L’ultimo metro, per Vanessa, si è concluso con un viaggio sottoterra. Lei non è Catherine Deneuve, non sta girando un film di Truffaut.

 Vanessa non è tornata a casa, dopo quella corsa.

E i giornali sprecano fiumi di inchiostro, fra retorica e istigazione. Esasperazioni, strumentalizzazioni, speculazioni. Un’occasione ghiotta, da ghermire come falchi su una preda.

 

Ci sono, in fila indiana, gli spettri delle nostre paure: il terrore dell’altro, del diverso da noi che all’improvviso irrompe nella nostra vita, scardinandola; l’insofferenza crescente in cui ogni moto, ogni sussulto rischia oggi di divampare in una lite fatale; lo straniero fosco che minaccia le nostre quiete giornali civili, di bravi occidentali.

Tanta carne al fuoco. Troppa. Il bruciato non tarda ad arrivare. E lo fa anche in modi meno strillati di quelli che hanno occupato la cronaca nazionale dal momento in cui Vanessa ha ricevuto il colpo mortale alle polemiche post-sepoltura.

Nelle pagine romane di Repubblica, Aurelio Picca firma oggi un articolo inoffensivo quanto inutile.

 

 

Il titolo:

 

 

Ma nei gironi del metrò il vigilante è un miraggio

 

Per fare questo giro in metropolitana mi sono portato appresso R.P. che è un vecchio signore al quale qualche anno fa, sul trapasso della lira con l’euro, proprio sulla metro gli fecero fuori trecento euro e settecentomila lire che custodiva nella tasca dei pantaloni”.

Il giornalista, che a giudicare dall’attacco del pezzo sembra firmare un racconto dal fronte, distribuisce in mezza pagina la sua escursione nel tubo sotterraneo della capitale. Anagnina, Vittorio Emanuele, Piramide…

Una cronachetta  inoffensiva quanto inutile.

Sì, perché non basta una gita di poche ore per infierire sull’assenza dei vigilanti intensificando la tinta già fosca delle nostre ombre. La metropolitana è un luogo che va sorvegliato, ma non è Tel Aviv.

Non li ha incontrati. Sarà stato sfigato.

Io vivo a Roma e prendo la metropolitana solo quando il mio scooter va in panne,  quando piove o quando torno da un viaggio, scendo dal treno e mi imbuco nella stazione sotterranea. Eppure, malgrado le mie scarse avventure nel ventre della capitale,  ho incrociato spesso i vigilanti. Spesso, dico.

Sulle scale, vicino agli ingressi, in prossimità dei treni in arrivo o in partenza.

Il giornalista Aurelio Picca nella sua perlustrazione guidata non ne ha intercettato nessuno.

Sarà per quella strana legge di Murphy?

Sarà perché quando cerchiamo ostinatamente qualcosa, per qualche ordine sottile dell’universo questa cosa scompare?

Fatto è che dei vigilanti non trova traccia.

“Allora decido di scendere dal vagone e controllare se almeno qui passeggia un vigilante: niente, non c’ è anima viva. Vedo solo una scala mobile che non finisce più. MI sembra un agguato.”. Aurelio, Aurelio non preoccuparti. Le ragazze con l’ombrellaccio sono state prese. E saranno giustamente punite.

“Il display avverte: attesa di 4 minuti. E’inevitabile pensare: in quattro minuti può succedere di tutto”. Via, non esageriamo. Sappiamo tutti che la vita, in città, è sempre una guerra. Ma non ci diamo la tua importanza, non ostentiamo un tono sussiegoso da reporter al fronte. Ci infiliamo l’elmetto ogni mattina, combattiamo, ci difendiamo, lo appoggiamo sul comodino, la sera, prima di distenderci esausti.

E, soprattutto, forse aspettiamo un attimo prima di sparare sentenze sulla situazione delle forze dell’ordine nella metropolitana.

 

 Intendo dire che chi prende la metropolitana a Roma sa che comunque i vigilanti ci sono. Non saranno abbastanza, forse. Ma ci sono.  Lui finalmente ne vede due. Stanno fermi vicino a un’uscita. Purtroppo non sono onnipotenti, i vigilanti.  Le disgrazie accadono perché arrivati al punto in cui siamo ci vorrebbe un gorilla per ognuno di noi.

Infatti il problema sta nel progressivo imbarbarimento dei nostri costumi, nella violenza con cui aggrediamo, nella vigliaccheria con cui fuggiamo.

Tuttavia dispiace anche vedere la superficialità di alcuni giornalisti che sparano sentenze su situazioni che conosco superficialmente, trasformando un punto nero in un bubbone.

L’inchiesta è un’altra. Quella vera, almeno.

Invece, come spesso accade, ogni evento drammatico diventa il pretesto per scorribande a caccia della famosa “notizia” (in questo caso l’assenza di vigilanti).

Meglio stare un po’ zitti, forse. E riempire la pagina con considerazioni più acute, interessanti. O se un’inchiesta deve essere, che sia. A puntate. Non a caso nel mucchio, così, ndo cojo cojo, alla carlona.

 

In più, non è stata fatta nessuna domanda ai pendolari. Almeno nell’articolo non lo racconta. Forse loro sono un tantinello più informati di chi ha fatto un solo “giro in giostra” e poi è sceso. Il giornalismo fa domande alla gente. Da sempre. O no?

 

                    

 

Non so se mi ricordo di un campo di grano attraversato insieme a un amore concluso. Non so, caro Lucio. Non mi ricordo.

Di certo mi ricordo – e bene – la stronzata appena esibita dall’ennesima, deprimente puntata di Voyager. (Ho dovuto spegnere la televisione, a un certo punto).

Stavolta il nostro Roberto Giacobbo, Sherlock Holmes dagli interrogativi inquieti e dalle risposte sornione, a metà fra Lapalisse e Gigi Marzullo (con il quale condivide la stessa espressione sagace), "esplora" gli Ufo e i famosi cerchi di grano.

Come sempre, le sue "inchieste" si fermano sempre in superficie,  al riparo sotto l’ombrello di riprese suggestive e delle musichette alla Dario Argento che coprono il vuoto assurdo delle argomentazioni, dei lavori di scavo (sempre interrotti dopo una manciatina di minuti).

Con imbarazzante disinvoltura, Giacobbo ogni volta dà prova del suo risicato quoziente di intelligenza, della sua magistrale approssimazione che propina misteri in salsa New Age e domandone figlie delle interrogazioni e delle risposte di Quelo ("c’è crisi, c’è grande crisi, non sappiamo dove stiamo andiamo").

Già già. Bisogna avere pazienza.

E’ l’era della scienza fai da te, dei documentari-pidocchio che in cinque minuti liquidano alieni e buchi neri, Excalibur e la stella di Venere.

E il bello è che ha una corte di coglioni che lo seguono tutti contenti.

Stasera, dicevamo, per mostrarci l’evidenza degli alieni è addirittura ricorso a un tizio, un presunto esperto di ufo e scrittore (ogni esperto di qualcosa oggi è sempre e comunque anche uno scrittore), che comincia a passare in rassegna una serie di dipinti seicenteschi in cui, a suo avviso, sarebbero rappresentati degli Ufo.

E così un coro angelico, nel cielo, diventa una navicella spaziale solo perché la forma ovale e la luminescenza che la circonda ricordano questo tipo di forma.

Ma ecco che anche le nuvole, smascherate da questo genio di Alien, rivelano la loro intima, vera realtà: di nuovo, sono navicelle spaziali.

E ancora, toh, c’è perfino una sfera rotonda (che nel dipinto rappresenta l’universo, elemento tradizionale in molte raffigurazioni sacrali del tempo) che sarebbe in realtà uno Sputnik.

Giacobbe gongola.

Vabbè. Purtroppo la smania tutta moderna di voler rendere scientifico anche il mistero (un Ufo fa comunque meno paura di un altro tipo…di Rivelazione) stavolta l’ha fatta grossa.

Ha superato i confini. Non quelli terrestri. Quelli della decenza.

Adesso ogni quadro sacro che rappresenta soli, universi, nuvole e cori di angeli (tutti ovviamente accomunati da forme ovali e sferiche) rischia di essere passato al setaccio dagli occhi inquisitori di questi Torquemada a caccia di marziani.

La cosa è talmente ridicola da far passare in secondo piano la faccia comica di Giacobbe che, in mezzo ai campi di grano, sciorina teorie della lunghezza di un nanosecondo.

Chi sarà stato? Chi?

E che nesso ci sarà tra il campo di grano e il coro angelico? Forse la seconda che hai detto? Mah…

L’unico vero Ufo, qui, l’unico oggetto non identificato, è lui. E’ Roberto Giacobbe.

Scusa, Roberto, perché non punti il dito verso le stelle e dici «Et telefono casa?»

Guarda che dalla Rai ti fanno telefonare…

 

 

La fame di televisione funesta il mondo contemporaneo.

Tutti che si agitano, sgomitano, di dimenano pur di una comparsata in tv.

In fondo, il ragazzotto sfigato con l’aria da segaiolo cronico, quello che fino a poco tempo fa compariva puntualmente dietro ogni intervistato nei servizi televisivi(fosse Rai o Canale 5 poco importava…"ndo cojo cojo", si dice nell’aulica Roma) facendo penare cameramen e giornalisti (a proposito, ma dove è finito?) rappresentava l’ansia da comparsa, il tarlo del video, lo sfogo purulento dello "sto-in- tv ergo sum".

Basta guardare le facce impostate della gente ogni volta che in strada passa una troupe…

"Guarda, c’è la televisione".

Nella cultura dell’apparire, l’esposizione mediatica diventa una febbre senza vaccino. Peccato. Già, peccato. Perché vedi la gente che si rimbambisce, che va a fare figure devastanti pur di vivere il brivido di una ripresa (come i poveri coglioni che, rifiutati dal Grande Fratello, vengono riciclati in tv nell’apposita trasmissione che mostra la feccia di tutti i provini).

E non ne possiamo più, noi, di pupe e secchioni, di dilettanti allo sbaraglio, di case e casini…

Prego, sorridi, sei in Televisione.

Minchia, ma allora "sono famoso".

E che farai, quando l’obiettivo si sarà spostato?

Mi sposto anche io e lo seguo, altrimenti scompaio.

E che sarà mai un’apparizione in tv?

Manco si trattasse della Madonna…

A proposito, ma lei avrà scelto per caso, nel farsi vedere "in pubblico", il suo profilo migliore?

 

 

Nella sua marcia trionfale verso il capitalismo la Cina spezza un altro tabù, e copia dall’America la reality-tv studiata per educare imprenditori e manager alla dura legge della giungla-mercato: "Homo homini lupus".

La censura cinese, sempre rigida contro ogni dissenso politico, ha dato il via libera a uno show copiato da The Apprentice (l’apprendista): è il crudele concorso in diretta ideato e diretto negli Stati Uniti dal miliardario Donadl Trump, il più celebre e controverso palazzinaro di New York.

Si chiama Ying Zhai Zhonnguo, ovvero "Vincere in Cina", il principio è lo stesso del fortunato programma americano.

Una lunga serie di eliminatorie per selezionare i candidati che hanno più stoffa nel business, più vocazione per far soldi nell’economia reale, più talento nella concorrenza. Guai ai deboli, guai agli incerti, per vincere bisogna avere grinta, aggressività, determinazione, spirito d’iniziativa, voglia d’innovare, gusto per la competizione. E naturalmente avidità di guadagno.

(Federico Rampini, La Repubblica del 24 marzo 2007)

 

Insomma, con buona pace di Mao, ecco che i cinesi,  tra inciampi e contraddizioni, proseguono la marcia  verso il capitalismo. Addio libretti rossi, comunismi, omologazioni.

Se una cosa Mao era riuscito a fare, era stata quella di inculcare una testardaggine nel lavoro a oltranza, nella resistenza a quella fatica del lavoro che sgretola invece molti connazionali (specie nel pubblico impiego, diciamola tutta).

Così, mentre i cinesini nostrani scalzano man mano l’industria e l’artigianato italiano sopravvivendo in scantinati a schiera, multifamiglia, in cui giorno e notte si lavora e si produce (e la si mette nel deretano al marketing internazionale), quelli rimasti in patria si danno da fare per occidentalizzare il loro Oriente.

Vincere in Cina è prodotto dalla quarantenne Wang Lifen (una donna, toh), ex giornalista televisiva, è stato un successone.

Il format diventa perfino più cinico rispetto a quello americano: il vincitore non guadagna un’assunzione nel gotha dell’imprenditoria, ma riceve un milione di euro da investire nel suo business plan. Come a dire: introduciamo il radicalismo cinese e, se Occidente deve essere, Occidente sia, ma fino in fondo. Il rischio di impresa non chiede assunzioni, ma esposizioni. Ecco così che il neomanager cinese deve misurarsi da subito con la giungla dei mercati a mandorla. Troppo comoda, l’assunzione.

Il reality di Trump sbanca dunque in Cina, che si affretta a copiare il format televisivo (e come sempre, in questo, i cinesi sono maestri) importando, oltre agli input per i liberi mercati, le tecnologie, la Coca Cola, anche la feccia dei nostri sistemi.

Già il reality di per sé rappresenta un pezzo rigurgitante di televisione, come sappiamo bene con i nostri Grandi Fratelli, Le Fattorie, Le isole di Famosi, Gli Amici e i Circhi vari. E tuttavia la De Filippi e la Barbara D’Urso al confronto sembrano le cuginette di Biancaneve.

Sì, perché il cinico slogan di The Apprentice, felicemente traslocato in Cina, è: "Non si fanno prigionieri".

Eh no, calma. Un libero mercato fondato sulla competizione non comporta automaticamente la spietatezza verso i più deboli. La meritocrazia si basa anche su un’etica di comportamento in cui non necessariamente si schiaccia come una pulce il vicino.

Comunque, tornando in Cina, è buffo vedere questo paese così combattutto tra passato e presente, così condito da ansie occidentali e da resistenze "cromosomiche" che la trasformano in un crocevia fra omologazioni comuniste, tradizioni, corsa selvaggia verso il capitalismo.

La Cina è il paese delle biciclette e delle famiglie-città, è il paese delle fabbriche in cui si dorme e delle massime di Confucio. E’ il paese delle non libertà, quello degli esodi capillari in tutto il pianeta, quello delle mafie mondiali, delle moltitudini e dei partiti unici. 

Un coacervo di paradossi che rendono eterogeno il paese che Mao aveva "pettinato"  e messo in divisa ma che, sfuggito dalle sue grinfie, mantiene il peggio a onore della memoria.

Ora, prima di agitarsi per la seconda, attesa edizione di Vincere in Cina, sarebbe bene ricordare, davanti all’importazione dei modelli di business americano, che la Cina è anche il paese in cui un uomo si trova in carcere da due anni,  consegnato da Yahoo alla polizia perché su Internet inneggiava alla democrazia e alla libertà (per scagionarsi Yahoo scarica la colpa sulla sede di Hong Kong, ma Hong Kong, appunto, è una zona franca dalle leggi cinesi, lì non si è tenuti ad avvisare la polizia, vigono leggi proprie).

In Cina Internet è ancora il demonio. In Cina la censura impedisce ogni forma di personale discriminazione.

In Cina le esecuzioni capitali hanno il primato mondiale, da otto a diecimila esecuzioni ogni anno (solo nel 1997 il furto fu depennato dai crimini punibili con la pena di morte)

 In Cina si portano le scolaresche (medie e licei) ad assistere allo stadio alle fucilazioni di massa.

In Cina i cadaveri dei giustiziati sono prelevati direttamente con un furgoncino e venduti a pezzi al mercato degli organi.

Però ecco che la Cina spinge sul "libero" mercato con il suo format americano. Bravi. Ma non si può importare solo ciò che fa comodo.

Pare che uno degli eliminati abbia minacciatoil suicidio e che ora sia scomparso.

Ha ragione forse Zhao Yao, l’eliminato dalla finalissima, che lamenta l’assenza di realtà nel reality, denunciando le orchestrazioni e le manipolazioni.

"Forse è questo il vero insegnamento da trarre, la realtà non è mai quello che pare".

Esatto. Lo dice anche il Tao…

 

 

Anakin, foto di Alina Padawan

 

“La probabilità matematica che un gatto faccia esattamente quello che gli va di fare, è una delle certezze scientifiche esistenti”

(Lynn Osband)

 

“I cani possono avere un padrone. Noi gatti abbiamo dei consulenti. Questo è il presupposto essenziale per una buona relazione tra noi e gli uomini.”

(Celia Haddon)

 

 

Insomma, dopo aver visto gli entusiasmi della community gattofila, la padrona del blog non è riuscita a trattenersi. Per una volta, al posto di cultura, letteratura e società, si parla di…Gatti. Piccolo intervallo "musicale"…