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La mia Istanbul

Viaggio di una donna occidentale attraverso la Porta d'Oriente

 

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Ci vuole una vita intera a costruire qualcosa, e un istante a distruggerla. Non smetto mai di pensare a questo concetto.
Si vede ovunque, in natura e nelle costruzioni artificiali.
Ed è vero. Terribilmente vero.
La costruzione comporta fatica, tensione verso, sudore.
La ditruzione è il gesto – magari incurante, o inconapevole, di un istante.
E quell'istante tutto scivola via, come fumo nel cielo.
Ma non importa, bisogna continuare a costuire, a provarci. Senza arrendersi.

 

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Succede che anche se vai fuori per lavoro, puoi sempre trovare il modo di vedere una città. Puoi evitare di ridurla a una serie di abbuffate nei ristoranti e dormite in albergo.
A me è successo. E' successo a Parigi.
Organizzata bene la mia fuga dalla Fiera, mollate le persone allo stand, ho raggiunto il centro e…mi sono persa.
Sì. Mi sono persa nelle strade di un novembre parigino, con il suo cielo grigio e piovoso (chi mi conosce sa che amo la pioggia), le sue architetture straordinarie, i bistrot., gli alberi spogli… Mi sono mangiata una crepe alla cioccolata mentre volutamente ignoravo ogni direzione. Sì, perchè se ti dai una meta allora non si assapori bene una città. Devi invece perderti per trovare lei, dimenticare mappe e tappe, lasciarti guidare dallo zingaro che è in te e che sa, conosce la non direzione in cui tutto compare. Così, conosci una città.  E Parigi è davvero la  Città.
Di notte, le sue luci sfavillanti celebrano esattamente quella "festa mobile" di cui scriveva Hemingway. A confronto, Roma sembra illuminata, nelle sue serate notturne, da lampadine di 40 watt.
Parigi no. Lei  illumina le facce e i palazzi, gareggia con le stelle, muove il suo respiro invisibile nei bistrot, si infila nello spazio sacro della verticalità gotica, ascolta le chiacchiere infinite allungate nel tempo sospeso di un bistrot. La notte, a Parigi, brulica di luci e colori. E tutti fuori, sparpagliati nei caffé, a ignorare il freddo coprendolo con le voci, con i sorrisi, con le bevande fumanti. Ripenso a Sartre, a Simone de Beauvoir, a tutti gli intellettuali che dei caffé facevano il mondo. Noi, noi invece abbiamo recluso nei salotti la nostra cultura, l'abbiamo asfissiata con i vezzi del dotto, ne abbiamo fatto oggetto di vanto e non di scambio. Respiro l'aria dei caffé mentre immagino quelle voci lontane che volevano cambiare il mondo, che si interrogavano, parlavano, passavano ore seduti girovagando su tutto, consapevoli che l'intellettuale vero è quello che si sporca le mani, come diceva Pasolini. E che discute, che non fa del suo universo l'unica certezza di vita.
E li rivedo tutti, i miei amori passati. In quelle atmosfere parigine vedo  Balzac passare in carrozza, e sento la meraviglia di Proust davanti a una nuvola in corsa. E Flaubert, e Victor Hugo. E tutti, tutti coloro che ho amato sono lì, accanto a me, nella mia passeggiata in cui il giorno diventa notte. Fermenti, sospiri di una città "vera", lontana dal provincialismo che attanaglia le nostre presunte metropoli che, ahimé, della metropoli hanno il caos ma non l'essenza di quell'umore sottile che come un vento qui passa ovunque e allarga i confini. 
A noi  manca quel respiro internazionale, quella brezza dilatata che soffia sulle cose e che, almeno per me, conta tanto.
E mentre cammino per ore mi accompagna la sensazione di essere a casa. Qui mi sento a casa. Mi riconosco.
E la sensazione culmina nella Sainte Chapelle. Non voglio descriverla perchè le parole sarebbero un gesto superfluo. E'. Semplicemente.
Dico solo che la bellezza mi ha trafitto come una lancia e che ho pianto. E che ho sentito un richiamo antico, che attraversava il tempo.
Un istante, ed era già volato via.
Avrei voluto restare lì per sempre, ma il tempo è tornato, mi ha chiamato, mi ha riportato al lavoro che avevo abbandonato.
Eppure ce l'ho fatta. Ce l'ho fatta a regalarmi un pezzo di libertà. A incontrare, anche se per poco, l'anima di una città che si è impressa nel cuore. Mi sono ricordata di quando, tanti anni fa, ci avevo trascorso la gita di scuola. Ricordi smozzicati che riaffioravano. Come quando davanti a Notre Dame mi ero commossa. Intendiamoci, mi sono commossa anche stavolta, Notre Dame è Notre Dame, per carità. Ma è la sainte Chapelle che mi ha rubato il cuore.
Per sempre.

 

Gugiu è uno dei soprannomi del mio gatto Anakin (che diventa anche Tutu, Pappo, Pappasciusciu, Aninani, Nannariello, Uattutu, Tututututotutu). Confesso, faccio parte di quella categoria di rimbecilliti che danno nomignoli idioti, sia ai figli che agli animali.
Ma che posso farci? Sono completamente cotta di lui. Rincoglionita, catturata, rapita.
Il fatto è che non sei mai tu a possedere un gatto. E' lui che possiede te.
E' il tuo compagno ideale.
Ma rimane un gatto, per sua fortuna. E per la mia (a parte le lacrime angosciate quando arriva con gechi smozzicati ma ancora vivi).
Certo è che, ogni giorno, quando la mattina mi stiracchio e incrocio il suo sguardo languido e ruffiano (perchè vuole la razione di pappa), penso a come sia bella e piena una casa in presenza di animali.
Perchè loro sono un mondo diverso da tuo, un mondo che però si incrocia, familiarizza, impara con te a condividere segni, gesti, suoni.
E silenzi.
La vera comunicazione, fra Anakin e me, passa attraverso il silenzio.
E non è poco, in un mondo pieno di caciara.
Si dice che i gatti siano i  compagni preferiti dagli scrittori.
Non so. So che io scrivo, di fatto, per lavoro e per diletto. E so che lui è sempre lì, accanto a me, paziente, immerso nel suo ozio dorato, filosoficamente impegnato a "essere", nulla di più nulla di  meno. Vigile, attento, mai distratto. Un vero maestro. E una vera Musa…anzi, un vero "muso" – letteralmente – ispiratore. Su quel muso, infatti, si appoggiano – prima di divenire su carta – le mie parole più belle.

 

Nel giorno dei morti, io penso anche ai vivi che stanno morendo…

Non ho voglia di scrivere altro perché questa foto non chiede parole. Chiede solo di guardare, e di pensare.

CARI AMICI SCUSATE LE FORZATE ASSENZE, VI HO SCRITTO QUALCHE RIGA DI RINGRAZIAMENTO NEL VECCHIO POST. MA CI SONO, APPENA POSSO CI SONO, E VI PENSO CON TANTO AFFETTO…

 



Ieri curavo il mio terrazzo (che comunque lascio crescere in modo molto disordinato, selvaggio: non amo le piante "pettinate", che sembrano appena uscite dal parrucchiere). Potavo le rose, concimavo…e toglievo erbacce.
Ma, a un certo punto, è successo qualcosa che mi ha fatto riflettere molto.
Uno dei miei adorati gelsomini siciliani era invaso da un'altra pianta, cresciuta quasi a dismisura. Una pianta generica, non una "di razza", una di quelle piante che comumenete chiamamo "erbacce". Già, ma erbacce rispetto a cosa? Chi ha deciso quali sono le piante di serie A e quelle di serie B? Ecco, mentre cercavo di assassinare l'intrusa mi sentivo a disagio. Lei lottava con tutte le sue forze: ho dovuto infilare le mani nella terra e scavare, tirare, staccare pezzi…finché alla fine la radice, rassegnata, è venuta fuori insieme a un sacco di terra.
Ma non ero contenta dell'opera svolta. Chi ero io per stabilire che quella pianta, portata dai giochi del vento, non aveva diritto di vivere?  Che ne aveva meno dell'altra?
Era lì, enorme, a terra, e io mi sentivo colpevole. Ingiusta.
E poi, a ben guardare, alcune non sono davvero brutte. Anzi, a essere sinceri, non eisste nessuna pianta che sia davvero brutta. Esistono piante più o meno belle, questo sì. E piante decorative, affascinanti…
Ma tutta quella flora anonima che finisce sulle nostre terrazze non ha forse anche'essa diritto di esistere?
Certo, troppe piante in un vaso finiscono per creare una competizione radicale in cui la pianta più debole è destinata a soffrire…
Ma mi è sembrato comunque ingiusto, almeno dal punto di vista dei loro diritti.
La natura è meravigliosa, e ogni sua creazione ha una ragione d'essere.
Perfino quelle che chiamiamo "erbacce".
Il mio glorioso gelsomino siciliano è libero, adesso, e ha recuperato tutto il suo spazio nel vaso.
Ma io sento di aver sottratto qualcosa di altrettanto prezioso, anche se in modo diverso.
E, davvero, non so se alla fine il mio terrazzo – già così "spettinato" – finirà per diventare luogo di approdo  e sviluppo di quei quei figli di un Dio minore che noi buttiamo via regolarmente.
Del resto, che aspettarsi da una matta che fa la casina alla cavalletta a cui i gatti hanno staccato una zampa, accudendola per due giorni fino a darle l'estremo saluto?